1. L’arrivo a Mayda

Viveva un tempo lei rivolta al mare del domani. In corpo flesso alle spiagge di Mayda donava alle onde la malinconia del nuovo dire in un mondo altresì a sua indegna corruzione, definito sui tratti mediatici della tormenta, propagazione di morte per tempo indefinito. Era il moderno dell’umana appartenenza disegnato a immagine del violento ardore ad animare gli spiriti d’un popolo del cosmo remoto, di cui Mora era forse ultima esponente in gerarchia ormai obliata. Mora era giunta a Mayda, due miti dell’occulto legati in prosa. La nuova isola era di mezzaluna forma, con coste circonflesse a evidenziare il delirio a cui la sua frammentata ragione andava ponendosi inadatta nel confronto. La sabbia in gemito, dello splendore, paradossale, del cielo, finalmente sereno, dopo così tanto che la creta non ne vide abbagli, dacché le piante stesse germogliavano infelici, quasi come ad aver trascurato in qual modo crescere ed abbracciare l’arido della loro vergine ed eterea dimora.
L’isola di Mayda era un fantasma in una distesa d’acqua sconfinata, un ammasso roccioso del vuoto che andava a diluirsi nell’acido del sangue. Una leggenda dell’oppresso, svanita dalle carte del dire, in dopo esser stata trascritta su Tabula Terre Nove, nel domani, mosse misteri nella maldicenza del sociale, ma a quel tempo dello storpio cataclisma, ancor l’albore della nuova civiltà andava annotato su resistenza della stessa aria che sol l’unica creatura del tetro respirava a pieni polmoni, dopo molta dell’umanità consumata dalle acque. Eppure, quell’isola era lì, dispersa a sud del mitologico.
Mora rifletteva sul vigore sepolto nei mari del diluvio da lei stessa originato come mossa di redenzione per nuova stesura della storia, finché fu deciso di tornar a dipinger ossessione. Mora fu la sola a popolare il resto del silenzio che su quella striscia sabbiosa regnava solenne. Il mare placava il senso d’estraneità ardita dando vita al nulla. Aveva chioma bicolore, d’un chiaro biancastro delle nevi che da allora si tramandarono nelle lande delle nuove, formatesi, terre emerse e d’un nero dei corpi defunti degli avi, che l’abbandonarono in quell’angolo di cielo all’arrivo d’Elohim. Mora diede disposizioni agli arbusti su come ergersi fieri. Ella apparteneva agli astri non alla roccia del mondo terrestre. Lei, del colore delle mantidi, si adattò alla primavera. Fu gemito solenne dell’eterno che andava ora autonomamente a definirsi lieto. Mora era sola, fino allo sbocciare dei primi steli, fino al credere dei primi sudditi, fino alla redenzione di lei e alla comparsa dell’originario regno d’uomini, da lei ottenuti modellando argilla di sue oscure rimembranze. Fu proprio a Mayda che l’artificio del credere andò a definirsi in primordiale esordio. L’isola fuggì via dalla corrosione degli ideali dopo che Mora calpestò le sue coste e donò comprensione agli intelletti del disprezzato ignorare. Mayda fu terra di fede ed è ancora, oggi, lì sommersa, dai soprusi del rapido sociale, dal sangue malato dei padroni, dall’illusione della gioia perpetua.
Il mare la inghiottì, preservandola dall’acido del violento sintetico. Le coste di Mayda giacciono trascurate. Il mondo non è pronto a riaverla con sé.

Lascia un commento