2. L’ultimo Figlio

“Sono io uno dei tanti degli uomini da te partoriti?”
Solenne, si alzò in disuso del corpo appena nato in sabbia di Mayda.
“Sei l’ultimo seme del mio disegno.” Gli rispose lei.
Mora si riposò in confusione dell’atto ancora di traslare argilla in organi fertili dell’umana condizione, ma quello la squadrò nell’attimo del dire. L’uomo giaceva disteso, o almeno le poche parti di cui si componeva, il viso era modellato a modo d’un colore scuro che adornava la pelle stessa, mentre il corpo era privo ancor della chiusura, allor gli organi giacevano al di fuori, esposti al sole d’estate, la prima dopo il massacro di lei.
“Ma tu sei omicida.”
Mora si destò, capì d’averlo reso in terra, ma con troppo dell’intelletto di sé.
“Sono un’ultima anch’io, proprio come te, d’una gerarchia lì dispersa tra le nebulose. In mezzo agli uomini per abbandono sono in obbligo di preservarmi dall’acido della tua specie.” Ed accusò in parole colme d’ogni sfumatura del risentimento, per poi destarsi e comprender di non esser così coincisa da porre sulle spalle d’una sua creatura tutto il male che avvertiva dentro sé.
“Allora perché nasco?”
“Perché così è scritto. Verrai disegnato da mani affiliate al maledetto.”
“Sono tue queste mani?” Gli chiese.
“Mia è la premura di tessere la tua carne.”
“E quando tu mi completerai, madre?”
“Io per te non sono una madre. Ti dà la vita il potere del riflesso, io ho solo modo di incanalarlo nella sabbia e dare forma alla popolazione che abiterà di principio quest’ultima lingua di terra. Dammi respiro e sarai in piedi.”
L’uomo dal cranio rasato e dagli occhi del chiarore della superficie marina esaminava dal basso quelle sembianze da angelo del dire. Mora, distruttrice, dava riesamina alla novità dell’essenza. I suoi colori in contrasto si donavano, autonomi, risalto nel caldo tropicale d’un eccitazione sensoriale che colpiva alle spalle dei due ogni domiciliato dell’oro d’una spiaggia, da cui poi sarebbe sorto l’ignaro del mito austero affidato al sociale dei nuovi uomini, i primi nati in sabbia, non in ventre, in utero delle prossime venute al mondo.
“Vorrei alzarmi.” Disse lui, impossibilito nel compiere i primi passi. Era da poche ore che il fiato gli aveva concesso sfogo. Aizzarsi. Non era sicuro di posseder tal conoscenza da interpretare a pieno ogni sillaba da egli pronunciata, e soprattutto non era certo di capire nelle tonalità della sostanza quel bisogno incessante che bruciava nell’anima sua, volto alla conoscenza dell’insieme, delle ombre del suo essere che pressavano l’intelletto nel sapere chi fosse lui e quali imprese potesse mai compiere. Aveva così tante domande in mordente del riflettere. Sperava che lei potesse acquietar le voglie. Possedeva ricordi, scene d’un cataclisma, d’onde a soprastare interi continenti, ma i principi suoi eran ancora segnati da quei pochi attimi passati a Mayda, l’isola, sol di quel poteva trattarsi, l’ultima terra emersa. Sapeva dell’oceano omicida, d’uno sterminio della popolazione umana senza precedente alcuno. Sapeva delle ere, del fuoco dell’arcaico Adeano. Aveva impressi in sé i cicli, l’Osoriniano, l’ascesa del Riflesso, come se il corpo stesse incanalando milioni di cose vedute e originate dal fondo del veleno a cui si rifaceva, ma lui era lì da così poco. Incompleto, non poteva posseder passato. Non erano suoi quei pezzi d’influsso sinaptico che lo attraversavano dalla vetta a partir dalle sue dubbianze, delle idee, dei fatti veduti in morte ed adesso che era giunto alla vita, auspicava sol di camminare, spostarsi, veder cosa rimaneva di quel che fu, a quel tempo, all’era del ridisegno. D’improvviso, calò l’attenzione al suo torace dilaniato, dove il suo cuor pulsava a suon della Genesi. Fu disgustato da quella vista. Rigurgitò il malanno di fianco alle sue linee tenute insieme dalla renella. Eppur, pensò di starsi scrutando dentro, nell’intimo. Era lui nell’erotico e nel contemplo di quel corpo in cui avrebbe radunato ogni singolo impulso dell’ingegno suo orientandosi al domani, avvento colmo d’ogni sorta di rosee aspettative riservate a chi ancor non sa nulla della fame che s’appresta a soddisfare con ogni feroce mezzo, d’un bisogno del mondo che consuma ogni sorta di piacere del respiro. Mora non rispose al desiderio di lui. Il suo fiato si fece corto, malato, era china col suo vestito bianco a coprirle di poco la pelle bianca del gelo dell’epoca Uroniana, rivista da lei in modo quasi affettivo.
“Vedo il ghiaccio, come posso saper cos’è il freddo? Di quanto brucia il contatto col gelo?”
Mora s’apprestò a interrompersi nel richiamo al malessere di cui partoriva affanni. Raccolse le ciocche bicolori stringendole in un laccio d’erba dove l’attrito andava a bloccar l’acconciarsi. La sua fronte era piccola e spoglia d’ogni imperfezione. Le unghie della sua mano, dal tatto sicuro, docile e in gloria degli eccessi, eran scure, nere del manto d’una notte senza splendore. Ella accarezzava, con negli occhi la gloria della celestiale giurisdizione, l’appena di lei, ultima creazione.
“Ti sorprendi di conoscere, tu, cos’è il gelo? Tu, condannato, ad ora, nell’aver accesso al sapere della creazione tutta? Tu che sai di quanto le rocce si fecero pietra a cominciare dal fuoco dell’immenso d’una dannazione da cui fu partorito il mondo che or porterà te ad odiare il sangue di cui adesso ti farò dono?”
Si fece silenzio. Le onde si infrangevano sulla costa e le sue insenature. Nessuna nuvola rivestiva il cielo. Il caldo imperversava investendo tutto l’aperto spazio del litorale da cui gli uomini si tenevano lontani, e quindi anche distanti dalla prima madre. La comunità cresceva a ridosso della vegetazione, insediandosi nelle ombre dei grandi arbusti, imparando ad intrecciar il legno delle prime zattere, a lavorar la pietra per gli utensili, catalogar i frutti e le proprietà d’alcuni petali di fiore.
“Se tale è la condanna, io non voglio posseder la vita.” Interruppe lui la pace.
Mora tastò le forme taglienti e quella pelle dell’avorio le diede brividi lungo la schiena concepita tutt’attorno ad una distesa di pietre frantumate e pressate fino a giungere a divenir granelli del più piccolo raggio. La malinconia serrava ogni stesura di quella che voleva essere il suo personale arrivo nelle grazie d’una discolpa, nell’espiazione di peccati da lei commessa in soprusi, in odio, in errori che a quel tempo la tormentavano dall’oltre del dimenticato dalle innumerevoli anime che adesso giacevano ferme sul fondo della barriera di coralli, dove i cadaveri dei primi natii era storpiato dalle correnti.
“Come se fossimo noi a scegliere se essere parte del perverso.” Le parole del demone avevano, nella tonalità, un qualche eccesso di passato astio, ma allo stesso tempo erano amorevoli nei dettagli d’un male di respirare che gravava a piene colpe sulle sue movenze.
L’uomo si raccolse in un’espressione di stupore. Comprese d’essere in grado di muovere gli arti superiori, allor, con sorpresa, egli si destò scostandosi dal tocco di lei, per poi alzarsi, lì seduto, sorretto dalle braccia. Nel suo sguardo impressa la preghiera del ritorno al nulla, dell’essere atomo della materia, e non fondamento senziente, in grado di recepire gli stimoli della contraddizione d’uno stesso cielo che non ha fede.
“Allor dovresti tu scegliere? Chi sei tu, demone? Ho bisogni io che non posso soddisfare.” Gli disse e pianse, mentre dal petto scorrevano piano, da polmoni e aperte arterie, ogni fluido che prima giaceva nei suoi incastri corporali.
“Questo ti rende umano. L’accusa, il rancore, aspirazione ad una felicità che mai potrai sentire legata al tuo impuro spirito.” E cercò di farlo coricar nuovamente, ma l’uomo la evitò e tornò a fronteggiarla.
“Dovrò io rincorrere l’armonia? Fino alla fine dei giorni? Con la consapevolezza di non esser mai ben voluto dal reale che ora disprezzo?” Urlò e il suo cuore iniziò a battere così forte da non sottostare più all’affanno.
“In realtà sei il primo a Mayda ad aver posseduto raziocino segnato dal vuoto mio, prima ancor che il corpo tutto ti fosse formato e questo t’ha portato a comprendere il nulla, ancor prima che esso si divorasse. Sapere è una condanna.”
Alle grida dell’incompleto giunsero in richiamo centinaia di creature, uomini Maydiani, con l’intento d’assistere all’evolversi dell’accaduto. Scorrevano attraverso il folto tropicale degli addensati di vegetazione, vestiti di stracci o edere di fortuna, oppure completamente spogli, non possedenti quel concetto eretico di pudore che la loro stessa madre ebbe in eredità dai primi uomini da lei ideati al cospetto del preservo della vita, con cui s’arricchivano e che iniziarono a difendere dalle glaciazioni coprendosi le forme. Si riversarono sulla spiaggia, accerchiando i due. Erano uomini e donne completamente formati, di derivazione esatta dai primi primati, bassi di statura, con aulica conoscenza di segreti un tempo appartenuti sol a quel del Riflesso, abitanti delle supernove.
“Son giunti a me. Vedi, ora? Così tanti di volti a te simili in quel che fu l’adattamento. Diversi, però, nell’etica, condividono il dolore dell’esistere in debolezza contro le prosperità della forza avversa d’un oggi illogico.”
Di demoni qual che fu e che i suoi figli gli invidiarono la divina potenza, Mora riprese vigore.
“Modellare uomini formati è molto dispendioso per mio sostengo, sangue e ingegno. Prima del diluvio, concepivo solo neonati.” Disse lei dal chiarore della bianca luna che tinse nel cielo nell’intimazione alla fuga, al fine di sopravvivere alle acque che giunsero in tempo dell’olocausto.
“Vidi come di fianco ai primi antichi astronauti, gli uomini s’evolvevano in gioia, cominciando a imitare le grandi costruzioni di loro, venuti a esporre alla cultura del mondo terreste le prime pietre lavorate dalla folgore.”
“L’evoluzione che porta a comprendere è sadica e tu non sei colei che ha il potere di scegliere chi prospera!” Proclamando in tono con rabbia coincisa d’una bella stagione, l’uomo ebbe l’impulsò di placare la fuoriuscita di sangue, ponendo il palmo al petto, ma l’apertura, che s’estendeva nella pelle, era tanto ampia da non poterla coprire interamente. Il dolore delle contrazioni era insostenibile per chi appena aveva avuto occasione di maledire il primo giorno del martirio suo. Rise, di disprezzo, mostrando la sana dentatura.
“Ecco che ora tu che m’hai dato fiato, mi contempli perire al cospetto del mare. Tuo mezzo d’uccisione. Che tu sia maledetta.” Non sopportò ancora, crollò in terra di getto. Il limbo di sabbia proruppe in un’agitazione di granelli che allo schianto del cranio s’alzarono in aria, impolverando la folla nel suo insieme.
Tutti credettero d’averlo visto spirare, ma quello continuò a lamentarsi caduto al suolo. I polmoni si contraevano alla ricerca disperata di sollievo, e le viscere, al di fuori, s’annidavano confuse alla pietra che ora penetrava con veemenza nel corpo ormai prossimo alle ceneri di chi aderiva al limbo degli infanti. E quello s’agitava in terra, rotolando nella venuta dell’ultima esalazione. Guardò la gente, i visi afflitti, nauseasti dal macabro della scena, mentre il velo d’una nebbia d’ingiurie calava su di lui che di colpe non ancora aveva avuto tempo d’accostarsi. Alcune donne si strinsero ai loro uomini. Quella moltitudine era, di sé, un insieme tutto di colori e libertà coincisa. Una comunità d’amore selvatico si propagava in ogni sfumatura dell’umana sopportazione, che tentava con ogni mezzo d’opporsi alla depravazione del tempo e della vitalità in sé. Mora s’abbassò, arrivando da egli che s’addolorava, dissanguandosi. Con le mani lei gli raccolse nuovamente il viso e pose le pupille assenti a poca di distanza da quelle orbite colme di venature in causa dello sforzo che quell’uomo sosteneva al cospetto del male ad affliggerlo.
“Guardami!” Così disse.
Quello dimostrò d’avere il modo d’intendere parole e suoni, e obbedì. Le iridi in contatto, in scontro dell’oppressione.
“Io vidi uomini chiedere di condividere il sapere mio e della mia gente, antichi viaggiatori. Io vidi uomini forti, leali, virtuosi nell’insieme, in contrasto con l’acido degli esseri dissolti tra gli astri, che io ebbi modo di chiamare fratelli e sorelle, desiderare il mio bene. Io vidi uomini darmi amore, attenzioni, sentimenti nuovi al mio immenso del conoscere, ne fui abbagliata. Io vidi uomini possedere la mia forza, usarla per corrompersi, uccidere, odiare e saccheggiare. Io vidi uomini privarsi di libertà per guerre del possesso, cadere sotto le mani d’un amico leale. Decisi d’annientare quel che io trasmisi a famiglie immeritevoli. Così io vidi uomini morire travolti dalle maree, dissolversi nel grigio delle tempeste, bruciare colpiti dai tuoni del cielo irato. Sopravvisse una sola terra, quel che ora disegno completandola con ogni etnia conosciuta. Ancora che tento di modellare l’armonia e di farmi madre della gioia. Comincia una nuova era per l’umanità tutta, inizia da un regno unito, eretto dalla sabbia d’un isola di future odi. In quanto umano, sei ora destinato alla perpetua insoddisfazione ed io desiro che ora tutto questo muti, diventi nuova linfa per la condizione in cui versa ogni essere del geoide.”
L’uomo ancor non lasciava la vita, il sangue imperversava nella sua gola, sputava in terra quel che poteva al fine ancora d’ascoltare e non di soffocare nei rantoli della distruzione.
“La tua voglia di vedere cosa avvien pulsa d’ogni sorta di possente stesura d’una storia che ancor va scritta. Il tuo desiderio d’abbracciare l’ignoto d’un esistenza prossima è radicato in ogni parte del tuo essere mio seme. Per quanto il tuo intelletto sia volto alla comprensione dell’impossibilità del giusto, tu ancora non soccombi, sorretto dalla passione dello spirito che ha scelto d’appartenerti. Tu vuoi vivere.”
Quello adesso non più si spingeva, ma la contemplava con l’incerto della scelta lì sorretta ad un passo dall’eterno baratro. Le mani di lui giunsero ad afferrare quei polsi che tenevano stretto il suo viso.
“A Mayda, fauna e flora condividono con me i ricordi di ciò che è stato. Quel che vissi a cavallo di Gliese o goduto possedendo il corpo di Morgana. Tu vuoi appartenere al reale? Ora hai scelta, libero arbitrio da te bramato. Scegli, dannato!”
Nessun suono si legava all’ululato dello scirocco. I Mayediani, chi da tratti orientali, chi progenitore della stirpe degli Inca, chi ideatore delle fredde steppe dell’antartico o dei fondali marittimi più tetri, ancor possedenti testimonianze del massacro degli arcaici astronauti, di cui Mora, pur essendone parte, si fece avversa, stettero ad attendere. La presa di lui si fece più intensa sui polsi di Mora, fomentatrice delle acque, e quelli produssero macchie rossastra sulla cromatura morta. Tutti compresero quanto forte fu la motivazione impartita nelle fredde rimostranze dell’ultimo figlio. Egli voleva esistere. Tutti ne furono felici.
“Avrai nome di Polémi, l’incerto. Colui che dapprima di possedere il corpo ebbe intelletto volto al dubbio del vivere. Sarai mio stratega e fedele guerriero. I tuoi geni elargiranno floridezza alla casata a cui ora io m’unisco per sopravvivere al mondo terreste, in quanto figlia del Riflesso, legata in lutto a questa mia sola umanità.”

Ecco che il demone lo benedisse ed egli tornò alla vita.

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