Atto primo: Una bambina morta

V’era una famiglia che risiedeva sulla cima d’un colle, in sopraelevazione rispetto al paese che s’affiliava nome di Tule. Tra i pineti biancastri, il ghiaccio copriva, delle radure, i sentieri. Proprio quel pomeriggio, col sole ad accecarle e col vento a fendergli il viso, sulla neve del primo inverno, due sagome seppellivano la loro bambina.
“La fossa è tanto spianata, copre due ettari, ma comunque non v’entra la tua negligenza.”
Il padre Encomio teneva in mano la pala e scavava senza sosta un solco da far invidia al Pomerio. L’essere era il capostipite della generazione dei Moradia, contava cinquanta degli anni del macabro. Malnutrito, esile quanto un palo dell’acciaio che in cuore aveva impresso, i cui ventricoli non pulsavano sangue, ma solido disprezzo per tutto ciò che apparteneva alla vita terrena. Un volto scavato nell’indifferenza per ogni buon uso, due pupille glaciali che da sé possedevano tutto il riflesso dell’ignorare suo d’ogni tema e d’ogni buona logica. I boccoli del capo fiorenti, insicuri, neri, trascurati come la cultura del suo mormorare basso, sordo, colmo di parole riprovevoli. Il vestiario pesante e cupo rispecchiava le sue gotiche origini. Non aveva niente d’un umano, non era un uomo costui.
“Una fossa tanto grande per un corpo così piccolo.”
“Taci, che son sempre io a far lavoro. Piuttosto dimmi com’è morta la bambina tua. Non ci vedo lume.”
“La bambina t’apparteneva tanto quanto apparteneva a me, demonio.”
Andava dicendo Corveria, donna Moradia, moglie d’un diavolo. Ella, dal corpo sinuoso, mostrava meno degli anni che, per discrezione, mai accennava. I capelli ondulati e castani ornavano un viso ovale della stirpe dei Gramont. Le iridi del color delle maree erano umane. C’era lusso nel suo portamento e nella sua persona tutta, istruita alle arti, teneva in braccio il cadavere della fanciulla che doveva di poco esser alto che un metro scarso e pesare appena venti chili, alleggerito dalla decomposizione. Era profondamente adirata, mentre dall’alto osservava la china creatura gettar la terra di lato.
“Gli inferi m’hanno punito affidandomi le cure d’una famiglia di viscidi corpi morti.” Imprecava Encomio.
“Il mio corpo ancor si muove ed è caldo, è questo che ho tra le braccia che è gelido come la tormenta che c’investirà tutti se non affrettiamo la dannata sepoltura.”
E tremava donna Moradia, sdegnata, mentre attorno la distesa del bianco prendeva forma fino a salir sulle cime dove i torrenti eran ghiaccio e la fauna sterminata per nutrimento del deforme essere che ora s’arrestava e gettava la pala tra la terra.
“L’ennesima creatura nata e ridata alla terra.” Disse mentre il gelo gli offuscava i sensi.
“Stavolta ho scavato un gran fossato per accogliere i prossimi martiri del tuo utero. Il colle è pieno dei cadaveri dei figli tuoi, donna.”
“È la mia punizione per essermi legata al tetro dal quale provieni, deforme spirito. Son ferma e immortale. Partorisco ogni cinque degli anni miei, ad ottobre, un pargolo d’allattare, per poi tempo due autunni e rispedirlo nelle viscere di queste lurida e putrida valle.”
Così dicendo Corveria, con tra le braccia quei boccoli d’oro della bambina sua, la gettò con violenza, a liberarsene immorale, nelle fauci della grande buca. Il corpo esamine rotolò a causa della spinta. La polvere sporcò il vestitino rosa della defunta mentre questa ruzzolava dalla pendice della depressione e si stanziava sul fondo, col sangue raggrumato sui lividi arti. Ci fu silenzio dopo il basso tonfo, rumore assente dell’etica resa inopportuna. La neve cominciò a coprirle gli occhi fermi e spalancati. I due non avevano neanche avuto l’attenzione di serrar le palpebre della piccola, così sembrava che ella, da sotto, li squadrasse con disprezzo nel pieno del suo ultimo viaggio diretta all’altrove. Encomio rise cogliendo la comicità della scena senza pudore in ogni pezzo del suo spirito. I gemiti imperversarono fino ad arrivar agli abitanti di Tule, essi compresero che i Moravia ne avevano sepolto un altro, allor li maledirono. Tornando sulla cima del colle, mentre ancor sghignazzava, Encomio, curvo, cominciò a coprire con la terra la sua prole. Egli non derideva quella morte in sé, ma la sofferenza della moglie, che più che volta al lutto, alla perdita appena subita, era serrata al puro odio che sentiva per quella risata acuta e ripugnante.
“In quasi cinque dei secoli andati, ho seppellito cento di questi spiriti innocenti che dal ventre mio fuoriescono come prede fragili per il reale sadico che di me si fa beffe. Per i primi ho avuto dolore, li persi, considerati miei figli dall’alto della smarrita qual fu la mia umanità, ora il male ha lasciato spazio al solo dispregio. Non ho più ribrezzo per la morte, l’attendo sulla soglia di casa come s’aspetta la bella stagione.” Diceva Corveria sottovoce ed era veritiero il suo soliloquio, non v’era affatto amarezza in quell’intelletto acuto ed accresciuto nel tempo. Ferma alle righe della prima età queste s’inarcavano come a sottolineare un’espressione d’esasperazione, in forma della più grave, come aver assistito impotente all’ennesima tortura afflitta, di quel che ci si è fatto abitudine, ora non più distruttiva per l’anima. Encomio aveva ricoperto ormai la bimba in un accumulo di detriti disomogeneo. Tornava di fianco alla donna con in volto il soddisfacimento di sé. Questa non gli affidò alcuna svista, né a lui, né alla povera caduta fanciulla. S’incamminarono, insieme, verso casa.
“Allora che senti? È sempre bello vederli morti, non pensi, cara?” Disse Encomio in forma di tentazione. Avanzava flesso a causa della sua estrema magrezza. Corveria era ormai di neutrale veduta, non cadeva da secoli più preda di quei tranelli del diavolo suo. Così sospirò socchiudendo gli occhi blu e serrando le labbra. Encomio si grattò il mento e vedendo che non s’assecondavano i suoi eccessi, provò ancora a risvegliar supplizi:
“Oh, andiamo, mio sole. Se non sopporti più l’esistenza tua, puoi sempre farne a meno.” Le chiese ridendo e la sua faccia assunse i lineamenti della forma più nefasta del grottesco, con tutta la bruttezza degli eterni in sevizia mescolata al ruvido degli zigomi che gli davano l’aspetto d’un orco dall’indole malsana.
“Questo corpo non è mortale, mio diavolo. Sento tutto il mal del parto e il fuoco arde la mia mole, ma non son capace di sporgersi lì dove il fine della tremenda vita terrena s’impone e s’annida con la beatitudine e la gloria del dolce riposo. Non posso raggiungere la gloria dei cieli io.” Ogni qualvolta lo ripeteva, Corveria provava dentro un senso d’apprensione; era quel che più somigliava al ricordo che aveva della premura di sé. D’altro canto, Encomio aveva udito troppe volte quei poetici lamenti dall’amor suo affidatogli dalla dannazione, che sbruffò imbronciandosi.
“Cosa mi rimproveri con sospiri, mio diavolo? Sei un perfetto becchino della terra, bruttezza d’animo così accentuata che ti presenti come demone, ma rigettato in terra dal tuo stesso Ade. Non hai patria, né mai avrai gloria di cui i tuoi simili si nutrono continuamente, conquistando stelle distanti. Fossi in te io proverei sol avversione per quel che sono.” Disse mentre sorrideva avvicinandosi al marito di poco più basso di lei.
Corveria aveva imparato a mascherar il disprezzo e con quei suoi denti, eternamente candidi, si mostrava pronta a difendersi con sillabe della moria che aveva nell’intimo assorbito. Encomio fu in estasi sentendosi insultato a tal modo. Godeva al principio della sua disgrazia, e s’appagava con un piacere sensoriale senza confini di cui solo un mostro sa beneficiare. Quel male gli rendeva sopportabile la punizione sua. Corveria s’accorse dello sguardo eccitato del compagno e si voltò dall’altra parte. Aveva scordato d’aver a che far col malocchio. Al disgraziato l’insulto era cosa gradita.
“Che c’è? Ti ritrai, mia bella?” Chiese lui.
Corveria s’arrabbiò con sé stessa d’aver dato modo al suo sposo di compiacersi.
“Non mi guardi neanche più?” Encomio s’attizzava in modo ironico cercando lo sguardo della donna, ma questa continuava a tirar dritto con stampato in viso rancore d’Era. Ora il diavolo non s’avrebbe più finito di molestarla verbalmente, ma comparve, all’improvviso, la gran dimora tetra.
“Oh, la nostra Lavinium.” Disse Corveria.
Encomio si ricompose, dopo la sepoltura, la sua passeggiata in fianco di Corveria era stata così tanto soddisfacente che quando giunsero in vece della loro casa di dispiacque terribilmente.
“Or sai che t’attende il figlio tuo prediletto, mio diavolo. L’unico che sopravvive nei secoli al massacro a cui siamo costretti.” Corveria si coprì elegantemente la bocca con la mano, in prospettiva dell’esilarante scena a cui avrebbe, a poco da lì, preso parte.
“Che tu sia maledetta, donna!” Gridò Encomio con voce rauca. Una tremenda vibrazione di maldicenza che echeggiò tra la vegetazione. La tormenta era prossima, il cielo s’era fatto scuro.
“Siamo maledetti, mio diavolo. Tutti e due abbiam le nostri croci e la tua stasera t’attende.” Disse e rincasarono.

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