“Maledictus es!”
Così discorrevano. La sala da pranzo era d’immense ricchezze, sorgevano quadri dei maledetti sorretti di fianco ad un camino che ardeva di nefandezza a poco mostratesi in allori di morte. Le pareti erano del grigio dei mormoni, e l’oro delle posate splendeva su una tavolata di ben sessanta postazioni, riposte in lungo, su bianco della seta, sul rosso della carta e delle fiammelle dei candelabri, che erano in tutto tre a partire da un capo all’altro del tavolo. I servitori dell’oltretomba scendevano agli inferi per confezionare cibo avariato da servire alla famiglia. Encomio era a capo della brigata. Sua moglie Corveria era di fianco a lui, immersa in frustrazione narcotizzata, ingoiava i bocconi di carne putrida, accennando ad un sorriso di soddisfazione parziale nell’udire il suo diavolo infastidirsi di parole insulse.
“Tu, padre, non sai io cosa sento!”
Parlava il primogenito, l’erede del funereo. Parenio, dal volto pallido. I capelli scuri, ereditati dall’utero che avrebbe dovuto partorito, ma Corveria non ricordava affatto i gironi della gestazione, erano distribuiti ai lati, curati, tralasciavano una vistosa riga in mezzo al cranio che scendeva fino a giungere alla fronte. La sagoma era corpulenta, goffa e sgraziata. Un ragazzo in erba, in luce degli anni. Gli occhi erano, però, bianchi del nocivo. Indossava panni regali, ma tenuti in modo sciatto, così stretto da esaltarne il grasso di fianchi e petto. La bellezza dell’esistere lasciava spazio a quell’aria sua di saccenteria e di altezzosità così grottesca da dar risalto al ridicolo di cui si componeva. Parenio, il principe di dicitura sua, il nobile condottiero del gregge, il re dei suoi castelli domestici, era molto di cui s’ammala anche il più paziente dei nobili cuori. Col bel rosso del suo faccione messo di fronte alla madre che intanto ancora mangiava senza dar a vedere il suo disgusto per la condizione in cui versava, lì a marcire nel caldo d’una tortura che mai avrebbe avuto fine. Parenio, con lo stridio d’una voce fanciullesca, ma che si macchiava, ad ogni sillaba, d’enorme animosità dei bigotti, stava a difendere i suoi ideali. Corveria annuiva, stanca di portarsi a compimento del mostrare quale disagio vivesse morta, neanche a dir di lagnarsi, inutile farlo, era il suo inferno in terra, condannata alla non morte, incatenata all’ignobile paese di Tule e all’amore di quel del suo signore, il diavolo Encomio. Era sera ormai. Fuori il buio imperversava dalle vetrate colorate delle antiche cattedrali, esse dipingevano di Corinto la caduta, oppure di Bembo gli Asolani ed altri mille di scritture condannate. Per Corveria, osservare le vetrate era un modo per ricordarsi di quanto la Francia l’avesse resa donna, di tutto il marcio delle campagne, rimpianto, però, se messo in evidenza contro la nera commedia a cui s’assisteva ogni maledetto dì.
I demoni attorno alla tavola andavano reggendo i piatti delle portate, tutti racchiusi dalla ricchezza più fuori posto, eteree cornici di glorie argentate per condurre in grembo quella zuppa di liquame, o il veleno acido del vino imbevibile. Erano tutti di bianco manto, forme umane, uomini compiuti, giovini, superbi, ma dalla cadaverica pelle. Erano morti posseduti dal dannato, dal cuoio dei capelli consumati. Gli occhi fermi e immobili facevano da padrone a corpi storpi, coperti da vesti accurate e ben tenute, ma non abbastanza da mascherare il vile che s’annidava in quelle maschere di cera agonizzante. Erano tre, tanti quanto i membri della casata; ad ognuno era stata affidata una sua vittima.
Allor qualcuno di questi s’avvicinò a Corveria, nobildonna di Francia:
“Altro signora?” Gli chiese con disprezzo come poco prima andava a segno la provocazione di Encomio, il deforme, durante il rientro.
Un nauseante fetore penetrò nell’orecchio della donna al modo dei reali di Scozia. Corveria si ritrasse d’un poco per sottrarsi a quel puzzo della decomposizione, ma poi s’arrestò, ricordandosi che mostrare risentimento avrebbe aggravato solo la pena a cui era designata da secoli.
“No, grazie. Per quanto mi porti gioia una così pura squisitezza, penso che non giovi al mio stomaco nutrirsi più del dovuto.”
E sorrise forzatamente, così rasentando l’assurdo della vicenda. Il grande lampadario di cristalli, s’alimentava del fuoco dei maledetti che danzavano coi piedi rivolti al pavimento ricoperto dall’oriente della tappezzeria così ricamata d’ogni attenzione.
“Ricchezza materiale immersa in dannazione dell’esistenza è grottesca.” Disse Corveria reggendosi il viso col gomito appoggiato al tavolo, rammentando del bon tonné impartitogli in epoca di fanciullezza, dove i gomiti non dovevano mai toccare il tavolo, ma a quel punto cosa mai contava il giusto?
“Sta zitto!”
“Tu non mi conosci.”
“Non ho necessità d’ambire a farlo.”
“Allora non dialogare di quel che ignori.”
“Tu che trascuri quasi tutto del mondo impuro, incapace in distinzione d’un asino da un alce, vien da me a dirmi d’essere comprensivo?” E proseguivano Encomio e Parenio, padre e figli dell’occulto a gridare di disastri di loro alienazione.
Il demone servitore guardò la padrona e con la lingua tastò il perimetro delle sue labbra.
“Se vuol conoscere altro del mondo maschio, alla prossima cena potrebbe anche far d’altro che di mangiare.” Ancora quello, col piatto in mano, si crogiolava della sua bellezza fatale al solo delle inferme d’anima, ma erano i riflessi della lussuria di chi aveva spedito la donna in loop di dannazione, un’ombra che rimaneva celata, una presenza oscura di cui il marchio era tristemente percettibile in ogni decorazione e che nulla c’entrava con i morti della servitù. Corveria per quasi non rovesciò putridume in terra. Lo stomaco era, di suo, così mescolato ad ogni ribrezzo di difficile intesa per chi non si trovi a dialogare con un cadavere d’erotismo.
“Ne faccio volentieri a meno, mio fedele servo, ma grazie.”
Il morto bestemmiò e portò via il piatto con umiliazione, non prima, però, che esso squamò pelle proprio lì sulla tavola.
“Quanto orrida può essere l’esistere sia in terra che in cielo.” Diceva Corveria.
Encomio non badò alla scena, mangiava la sua zuppa di vermi in modo così adirato
che se non fosse stato per tutti quei corpi verdi che s’intrecciavano nel liquido non avrebbe neanche saputo dir d’essere un diavolo.
“Madre perché non m’aiuti?” Chiese Parenio.
Corveria pensò, guardando il basso figlio come faceva con quei ratti di lande che infestano i salotti della fetida borghesia. Pareva però che lo scontro fosse scemato in così poco. Allor decise che Encomio non aveva ancora patito abbastanza riguardo a tutte le altre sere che dal principio della maledizione giungevano fino a quel Natale ormai passato. Allora s’aggregò:
“Scusami, figliolo, il deglutire non mi ha permesso di comprendere di cosa si occupa la tua tesi e soprattutto di cosa tuo padre stia abusando in tuoi riguardi.”
Parenio sorrise, mostrando i denti gialli.
“Oh cara madre, tu sei mia Euterpe.”
Encomio scaraventò il piatto in terra, ma quello era d’oro e cadde sul tappeto tanto spesso da non provocare il minimo rumore.
“Stolto! Come fai a non capire che d’ironia si macchia la sua parola?” Il diavolo ringhiò alla moglie, guardandola con aria d’astio selvaggio, ma quella rimase risoluta con nell’anima la forza prodotta d’accanita contentezza.
“Io d’ironia non m’acquieto, mio diavolo. Dovresti conoscere la mia docile indole.”
“Docile? Tu sei demonio più d’ogni morto in questa sala! È colpa delle tue forme se ora giaccio in questo inferno. Se potessi soltanto uccidervi entrambi!” Così dicendo l’uomo fece per alzarsi, con rabbia feroce si sarebbe egli scaraventato sulla bella Corveria, ma suo figlio Parenio lo minacciò reggendo in mano una di platino forchetta.
“Tu tocca mia madre ed io taglierò la tua testa cornuta.”
Encomio ritornò nel suo placido sermone, placandosi. Sapeva che Corveria soffriva d’immortalità e che non era concesso far del male alla prole. Non desiderava neanche lui vedersi aggravar la sofferenza dell’esistenza sua mossa al compianto di così bassa feccia ai suoi occhi da illustre punitore, come buon diavolo faceva.
“Allor di cosa si discuteva?” Riprese Corveria.
“D’Amore madre, di quel che canta un canzoniere.” Parenio ripresa a sonar d’ego.
“Oh, ma che bello, mio pargolo. Amare è come morire. Così dolce.” Corveria si strinse in mal di continuare.
“Taci, Corveria, tu non vuoi morir davvero. È solo apparenza il tuo malanno.” Brontolò il diavolo, ma nessuno l’udì.
“Ed io amo più di chiunque altro, madre. Io so amare il bello, ma anche il brutto.”
Encomio lo interruppe sbruffando. I camerieri portarono in cucina il rimanente dell’ammalato cibo. Corveria percepì d’essere al limite della pazienza, ma tanto valeva ancora assistere a come Encomio si devastasse nell’anima nel sentire certi discorsi.
“Ah sì, mio bello? E come puoi amare così bene?”
“Perché comprendo cosa l’amore m’ha donato.”
“Solo grasso.”
“Oh, sta quieto, mio diavolo. Vuoi solo attenzione, ma in realtà sei provato da quel che tuo figlio ha da dire sull’amore tutto. Allor parla, Parenio, mia bellezza.” Corveria appariva genuina ora.
Parenio s’accorse forse del tranello. In così poche occasioni anche solo sua madre gli rivolgeva la stessa parola ed era sempre quando Encomio sembrava in quello stato d’assoluto torpore sensoriale durante le dicerie sue. Corveria sapeva che Parenio non provenisse dalle sue viscere, le sue origini rimanevano, però, ignote. Encomio lo chiamava figlio, anche lei era obbligata a dargli tal predisposizione.
Il camino ardeva di nuove risorse, la luna immedesimava il riflesso dei suoi raggi nel chiaro d’un manto disteso su suolo in tenebre. La vegetazione scossa da una delle peggiori tempeste. Il ghiaccio cadeva abbondante esteriormente all’immensa villa. Il vetro dei rosoni che s’inarcava ad accogliere l’indigesto della tagliente brezza, dei fiocchi di così pura della neve di fine dicembre. C’era però violenza, lì fuori, dal sapere cantare gloria alla funesta dell’ira natura, a quel che si diceva poter dissuadere logica dal conflitto d’elementi. Erano loro tre rintanati, però, nella sala bene scaldata. In concreto, nel materiale, ma poveri nella libertà del dire, costretti a sottostare agli impulsi dell’altro. Una famiglia di larghe vedute, i Moradia, odiatasi dal principio.
“L’amore mi ha parlato.” Il ragazzo comunque ancor perseverava, abbagliato com’era dalla possibilità di dare onori co i morfemi e le parole alla persona sua.
“Tu parli solo ai somari. Se solo potessi alzarmi e sottrarmi da questo supplizio, lo farei ma…” S’infuriò Encomio il cui dire però s’espandeva in eleganza nella rabbia, come accadeva in quei suoi poemi di siciliana scuola.
“…ma a cena c’è imposto dal nefasto di restare a tavola fin quando il nostro bel Parenio non finisce le sue ovazioni. Perciò continua bambino mio.” Corveria concluse.
“Perché ancora lo sproni, Corveria? Siamo incollati a questa condannata seggiola. Se continui, non andremo a riposare. Cos’ancora ti fa desiderare d’ascoltare così tante delle parole di lui, colme d’un ego sproporzionato e incline alla più totale trascuranza dell’esistenza stessa in favore solo di ciò che gli appartiene?”
“È comunque tuo figlio.”
“Esser figlio solo perché nato dal tuo ventre. È famiglia nel condividere disagio e quiete, ma quest’essere di te, di me, non ha niente. Siamo solo noi puniti nell’ascoltarlo ogni qualvolta si fa sera e mangiamo lerciume. Lui proviene da una parte dell’inferno a noi distante, non c’appartiene.”
“È comunque nostro figlio.” Disse Corveria in tono imparziale ignorando il fatto che Encomio ancora continuava a dire il falso sulla provenienza del giovane. Non sapeva perché lo facesse. Dentro sé s’avanzava il contro di comprendere quell’essere volgare del diavolo suo che ora faceva del pensiero concreto sua rivalsa.
“Questo non è desiderare. Lui non sa espandere il giusto, la sua è solo superficie, è un semplice diavolo in forma di giovinastro, mandato a torturarci per l’eterno. La nostra non è famiglia.”
“Io non sono un diavolo, padre. Tu lo sei. Io sono un innamorato vorace. Superiore a qualsiasi voglia è la mia di coesistere coi piaceri d’una vita intera. Un Dio della forma, dell’eleganza di nobile cuore e che loda incurante di sesso e forma.”
“Quale vita? Che vieni dall’inferno. Sei un seme del maligno impiantato nella sabbia, cresciuto e difeso dalla depravazione per rendere infelici le mie notti.”
“È comunque tuo figlio.” Sentenziò ancora Corveria che a questo punto abbandonò le sue brame di veder ancora il marito condannarsi e volle chiudere la faccenda. Il grande orologio d’argento, appeso alla parete della sala, segnava le nove passate, si era andato troppo oltre rispetto alle consuetudini della famiglia.
“Alludi al fatto che mi somiglia, donna? Codesto essere che fa dell’amore bazzecole? Che crede d’amare solo in forma d’appariscenza? Vedi che lui a me non appartiene.” Stavolta in Encomio mutò consapevolezza, c’era altresì una logica nei suoi pensieri. Corveria ancora ne fu sorpresa, un cambiamento così rapido in uno spirito che sguazza nel liquame dell’Ade, da aver visto così’ tanti millenni nel doversi ritrovar a subire un castigo così umiliante. Parenio diede un calcio al padre come a dire di ricomporsi e di reggere l’inganno.
“Padre, perché non apri gli occhi?” Chiese.
“Li apro e vedo solo un essere che disprezzo, che è nato al solo fine di brutalizzare. Come posso darti credito?”
Si fermò.
“Sei cieco, patriarca. Il volto della società malata che sentenzia senza sapere, che giudica e deporta. Condanna le altrui visioni e i primi diritti umani.” Lo accusò il ragazzo, stridulando nel complesso, emettendo suoni sgraziati e quasi strozzandosi con il frutto in tavola.
“Tali diritti ti son riconosciuti, maledetto. È il tuo ego che è avvelenato, non comprendi? Amare è una forma d’arte e tu non ne possiedi lo spirito affine e il sapere. T’elogi soltanto per il niente, non conosci neanche di cosa t’alimenti, che cosa sei, se uomo o diavolo, se bestia o lussuria, ed io sono costretto anche ad ascoltarti!” Encomio vituperò, alternando il rozzo del suo dialogare alla coerenza delle vedute. Strinse la tovaglia per dar evidenza della sua frustrazione e s’agitava cercando d’alzarsi, ma non gli riuscì.
“Io sono capace d’amare ogni cosa che può essere amata.” Concluse il ragazzo, facendo smorfie contro il padre.
“Allora ama quel fuoco che arde e brucia nella tua demenza!”
“Le tue parole son troppo dure, mio diavolo.” Intervenne Corveria cercando di placare gli animi e di darsi modo di fuggire dall’assurdità della scena che non gli interessava affatto.
“Oh, taci, donna!”
“Padre, io sono così. L’amore è libero. Lo ripudi perché non comprendi, perché ignori. Sei un bigotto, un povero stolto, di pregiudizi s’annebbia la tua immaginazione. Solo abituato al tuo calore per le donne che t’avvicinò alla pulsazione.”
Encomio non sopportò oltre.
“Ancora dillo che non t’importa del genere. Ancora dillo che sei diverso, più in alto, ma esisti come dei tanti che crede di star dalla parte dei giusti, degli onesti, contro il pregiudizio, l’odio, ma c’è più disprezzo nel prossimo nel tuo porti in cielo, egoista, bisognoso di parole che t’innalzano al cielo che non t’appartiene. Succube d’ogni mia parola che potrebbe essere pronunciata contro il tuo dire di falso amore libero.”
Quello fece per parlare, ma Encomio, sdegnato, gli impedì ancora di continuare.
“Pansessuale è etichetta, tu che senti necessario di dirmi di saper amar dal basso della tua stupidità. Ignori anche le tue origini, cosa tu sei? Il tuo scopo è solo punirci? Tu vivi soltanto nelle nostre sere. L’unico figlio che sopravvive al sangue, che non muore di malanni. Allora dillo ancora che sai amare, dillo ancora che sei grande. Tu, imperatore del sacro impero d’un accidente che grava sull’umanità tutta, l’ego.”
L’uomo sentì un calcio giungergli dal basso del tavolo.
“Ora basta, Encomio! Se rispondi in questa maniera la tortura non avrà mai fine!”
Corveria gli prese il polso per placare la sua ferocia, ma quello ritrasse il braccio ormai esausto nel corpo e nell’anima stessa. Poi, però, il diavolo si rese conto d’aver errato a sottostare alle provocazioni del figlio. Ora il tutto sarebbe continuato ancora per chissà quanto. Invece, d’improvviso, Encomio riuscì ad alzarsi. Parenio assunse, paradossalmente, un’espressione soddisfatta e Corveria non riuscì a nascondere la meraviglia del semplice visionar il marito ritto in piedi, deforme, al capo della tavola.
“Buonanotte, padre. Allora andrò a riposarmi. Sogni d’argento a voi!” Il ragazzo anche si spinte fuori dalla sala, arrivando sulla soglia del grande arco a sesto acuto che faceva da tramite per i corridoi della casa. Così diceva lui ogni volta che la tortura della sera andava terminando, ma succedeva sempre quando Corveria ed Encomio acconsentivano a dar ragione alle assurde parole del figlio. Era questa l’unica clausola imposta per fuggire dalla sala, invece quella volta fu diverso.
Encomio aveva dato sfogo a tutta la sua frustrazione e questo invece di far proseguire il trauma della conversazione, l’aveva troncata. Allora lo stupore dei due fu così grande che quando Parenio si voltò e si inchinò a loro, non seppero trattenere un sussulto.
“Buonanotte anche a voi madre.” Disse, ma Corveria non aveva fiato in gola per rispondere al figlio. Stava ferma con gli occhi spalancati e l’intelletto vagava nell’interpretare ciò che era appena accaduto.
“Hai forse spezzato la catena.”
“Come dici, donna?”
“Hai tu forse, e dico forse, interrotto la tortura.” Corveria sorrise. Per la prima volta, dopo secoli che i giorni eran impiegati tra sepolture di piccoli infanti, e disgustose, nevrotiche cene, si andava a coricarsi con la novità nel cuore. Qualcosa era sicuramente mutato. Parenio scomparve immergendosi nell’oscurità delle camerate. Corveria s’alimentò nella speranza. Era ora spezzato l’infernale girone? Allora era possibile evitare le torture? Fuggire dal ciclo delle pene a cui le loro anime erano incatenate?
Encomio, però, non fu tanto lieto. Spezzare la catena della tortura poteva sol significare che Corveria stava perdendo desiderio d’eternità. Stava andando concludendosi la condanna.
“Cosa significa?” Chiedeva alle pareti, ma rivolgendosi a colui che tutto vede a casa Moravia.
