3. Il massacro di Maydala

Il regno s’eresse da una piccola restia collettività di dotti ed eroi. Condannati furono i profeti, eredi del tetro. Veleno importato dall’eremo delle galassie all’isola del ridisegno. Il popolo di Mayda s’accresceva autonomo sempre più rintanato in edifici di muratura che proseguivano stringendosi verso il cielo, ripristinando l’idolatria dominante degli ancestrali esseri impiegati al Riflesso, che in periodo Archeano, lì dove tutto fu ancor caos, sentendo nostalgia degli astri loro, si sistemarono in palazzi di finitura massiccia, esposti ai materiali d’un cosmo remoto importati dall’originale stella dalla quale i demoni nascevano. Pietra dei millenni capace di resistere e di preservare i primi padri dal fuoco della creazione, perduta del tutto dopo il ritorno dei suoi possessori su lucenti astri. Questo, però, era l’antico, respiro primitivo del mondo. Da principio della nascita organica, erano loro a far da padroni al magma primordiale, ciò si concluse però col raffreddamento di fiato e suolo. Non v’era, già, più il buio, certo, ma loro stessi della notte s’appropriavano, immortali per il tempo, col sapere dell’esordio. Erano demoni, molto prima di spettri d’uomini e dello stesso mare di cui s’idratarono le anime d’eroi e che corrose proprio i loro spiriti dopo la distruzione delle onde ordinata da chi della setta del Riflesso ora si colmava d’astio, di risentimento verso il loro abbandono.
L’epoca narrata su queste lastre giace in legame col regno dell’ultima isola, addensato apposta dall’energia non terreste, ma oscura degli esseri che ora non più s’occupavano della loro procreazione. Abbandonate furono le umani terre per tralasciare un’ultima giovane anima, col potere più incisivo, in millenni di ristagno, che tra d’essi s’annidava, presto se ne sarebbero resi conto. Mora della marea, venerata dall’oceano, ora, grazie a lei, tornato vergine, scevro di parassiti ad infestarlo, ad ucciderlo, dall’intimo suo dire, dalle caverne d’ancestrali delitti. Trascritta in massa, in culture del domani a partire però dall’oggi in cui ella, successiva al massacro espanso, produceva la nuova umanità, cominciando dalle prime sue formazioni in epoca di Mayda. Iniziava il governo. Dalle sue mani nascevano i padri fondatori, sapienti di ciò che fu. Avevano aspetto di uomini e donne, uccisori della gioia, con voglia, però, di progredire per non ripetersi in errore del loro stesso ambire, diversi dai primitivi istruiti da lei, prediluviani, a cui Mora aveva pur dato figli, ammaliata dal falso delle promesse. Ora in lei germogliava necessità d’ergersi al cielo. Non crebbe più gli uomini a partire dai primi stadi dell’esistenza, non fece infanti. Questa volta, optò per la completa formazione, con la speranza di non rivedere compiersi il genocidio, di non più affogare nel fondo dei coralli tutti quei corpi, ormai crudeli, involucri d’anime gremite d’odio; non accorgendosi però, dall’alto della sua esibita purezza, di muoversi lei stessa spinta dal vuoto del suo spirito, causa d’una dinastia che sembrava mai aver preso a cuore le sue ossessioni, passioni portate all’estremo che la facevano, ancora prima di demone, donna come tante da lei partorite. Lo spirito di Mora era cupo, e tanto tetro come lo fu la sua magia da comunque ispirarsi ai popoli che essa visitò nel tempo, circondata dai viaggiatori, suoi prodotti, ora morti, errati, ripartiva, ricreava e ridisegnava l’armonia, la faceva erompere dalla ragione sua, riversandola nell’isola. S’affannava a modellarli forti. Era generazione di profeti, pressappoco capace di sopravvivere ad ogni intemperia che quasi ciclicamente colpiva la costa, al tempo nata, appena, dal fondo dei rimorsi del demone. In partenza ne furono duecento. Mora li crebbe in adorazione. Ella passò un secolo a inseguirli, a perfezionarli, ma la sua era pura e sporadica mania, cieca al martirio della coscienza che ammalava il suo cuore infelice, tradito prima dal Riflesso e poi dai primati, ora di nuovo si sarebbe vista estirpare la gioia.
“Non posso ora dar fiducia a voi, sebbene siate sorti dal mio raziocinio. Troppo son stata soggetto alle avversioni d’uomini e demoni, da non esser ora cauta in ogni forma. Tutto deve rientrare in definizione da me esposta.” Diceva loro.
Appariva come appena una giovane donna in lustri storpi, con i capelli suoi dai colori in contrasto. S’impose come regnante, creandosi trono e dandosi potere su ogni confine dell’isola, ancora inesplorata, tante furono le preoccupazioni dei vati che non abbandonarono mai la costa addentrandosi fino all’estremo della vegetazione.
“Chi mai non risponderà, in poche appena pulsazioni di cuore, al mio richiamo, sarà decimato in quanto avverso al mio regno.” Ed era così andando scemando il rispetto che la popolazione possedeva in confronti di lei, apparsa prima tanto amorevole in apparenza e coordinazione. Mutò il suo fare in tirannia instabile e gli ancora duecento, dei maydiani, subirono le sue angherie. Mora attendeva.
“Nessuno si riproduca coi fratelli suoi finché non sarò certa di cosa il vostro seme è capace di generare.”
Mora s’irrigidì ancora dinanzi a loro, il suo fare divenne austero, chiusa in sé nel pensiero e nel dire. Da subito fu chiaro, a lei sola, che quelli di Mayda non erano semplici degli uomini che mutarono in civiltà argute il terreno infecondo. Coi decenni, infatti, non mostravano loro segno d’invecchiamento e non perivano sotto i colpi della carestia del bestiame, dei tropicali frutti, delle non migrazioni dei volatili che, all’improvviso, non sorvolarono più i cieli dell’isola. Avevan comunque dolore ed affanno i primi profeti. Indistinguibili dalla cultura delle glaciazioni, si riparavano ancora dal gelo, dal caldo. Avevano amore, diverse inclinazioni nell’apprendere, predisposizioni e carattere. Il demone aveva però timore che quelli avessero potuto, accoppiandosi, generare tali esseri accomunati all’antico, corrotti, impuri, vendicativi, violenti, illusi, ingannatori. Sarebbero nati nuovi uomini, immuni alle mutazioni diacroniche, imperfetti. Mora rammentò le guerre sanguinarie del continente arido, o le ostilità per il possesso d’argini fluviali, della carne, dei segni di fame e lutto. Andavano adulti, prima, nutrendosi di fratelli per non soccombere. Allora attendeva. Neanche lei era sicura di come adempiere ai suoi obblighi, da lei, autonomi, prefissati.

Venne un giorno dove la spiaggia di Mayda s’inebriava della neve della fredda stagione. I vati si riparavano in case semplici di pietra neutra, estratta dal demone in solo una sera a messe in fila nella seconda. I tetti già convergevano ad un vertice alto. Appena cinquanta abitazioni poste in cerchio, dove al centro v’era il grande focolare. I maydiani dormivano in terra. Avevano poco bisogno di nutrirsi e sempre più individui cominciarono a rivestirsi con indumenti e stracci di fortuna. La fiamma scorreva eterna, anche sottoposta al ghiaccio, schermata dal potere di lei e presidiata dall’unico essere capace d’avvicinarsi alla madre racchiusa nel suo bozzolo d’espugnabile magma. Avverso al ghiaccio, non lo scioglieva in frode, ma danzava sopra le lastre in privazione d’attrito. Un solo edificio venne edificato all’interno della circonferenza, presidiava il fuoco, proteggendolo da ogni possibile incursione che sia di bestie o d’uomini, la dimora apparteneva al tramite dei maydiani, via verso le grazie del buio. Tra la prima generazione dei profeti, infatti, v’era uno dei tanti di nome Polémi, l’ultimo nato, dalla carnagione scura, il cranio rasato, gli occhi che splendevano d’una luce dell’ignoto. L’uomo viveva lì, a pochi metri dalla fiamma eterna. Ogni richiesta alla dea era, di sua iniziativa, trascritta su pietra, in sua testimonianza. In attimo della nascita, egli aveva mostrato risentimento nei riguardi della vita che s’apprestava a condurre. Già dotato d’un intelletto fine, aveva, come tutti, i ricordi del massacro delle acque, di quello che era stata l’umanità prima, e del motivo per il quale il demone aveva preso decisione di ridisegnare, a suo difetto, il creato tutto. Fu, poi, salvato alla venuta dalle premure che lo accudirono, rendendolo sacerdote. Erano passati cinquant’anni dalla fondazione. Cinque dei duecento profeti, capitanati da Polémi, si presentarono al fuoco, il cielo era bianco, annunciava tormenta. I cinque erano vestiti dai primi abiti di pelle d’orso, tenendoli al caldo dalla morsa del freddo che, paradossalmente, dilaniava l’intera spiaggia, coprendo la sabbia. Due di questi reggevano le lance, bastoni legnosi alla cui estremità era legata con corda una punta in pietra. Tenevano stretto ai polsi uno di loro, un uomo povero dai capelli lunghi e nerastri, la barba incolta e disagiata. Afflitto dalla stanchezza, quello, s’inginocchiò al suolo. Il calore del fuoco lo ristorò.
“Io, benedetto dal Riflesso, chiedo udienza.” Si pronunciò Polèmi, allargando le braccia davanti alla fiamma.
Ci fu silenzio per così poco. Ecco che il fuoco dilagò fino al cielo tingendosi di cobalto. Mostrante era l’accesa luna, rossa quanto il sangue degli uomini. Tante stelle illuminarono la volta. Esse, dall’Empireo, parlarono, dicevano che sarebbe giunta una loro figlia a dialogar con loro. Era il segno della sua manifestazione. I profeti sapevano che la madre mai negava un colloquio col suo sacerdote, l’unico da lei, udito in ogni singolo accenno. Così fu. Lei apparve ergendosi dal bollore del magma.
“Chi mai m’invoca or ora che m’immergo nel riflettere?” Disse palesandosi con le sue iridi tinte del rosso. Tutti indietreggiarono dinanzi alla magnificenza dell’immensità sua. Mora, madre dell’isola, scatenava gli elementi, il cielo tutto sembrava reagire alla sua spietatezza. Il suo fare era mutato dall’amabilità sua durante il disegno di loro, i cinque ne erano consapevoli.
“Ci siamo detti di non aver esitazione.” Disse Polémi ai suoi e quelli tentarono d’assumere, difficilmente, un quieto apparire.
La lava si placò ritirandosi nelle viscere della terra.
“Avvicinatevi.” Disse lei, dalle vesti solenni e tetre. La sua magra figura e la pelle morta non denigravano una bellezza priva d’espressione, troppo sia in gloria per essere lodata da qualcuno che ancora respirava in terra d’uomini. Placò l’ira e le iridi s’adornarono d’immensi solchi lunari, seguendo il flusso del satellite notturno che anch’esso tornò bianco. Polémi quasi sentì eccedente l’animo scombussolata dal sacro che giungeva alla vista sua per continuar ad esistere, ma proprio per quel che si vive, per adorare il mondo tutto, s’impose. Gli altri lo seguirono fino a pochi passi dalla matriarca.
“Madre, siam qui giunti da te.” Cominciò il sacerdote.
“Lo vedo, figlio. Perché m’ostacoli nella definizione del vostro esistere?” 

Mora era una fanciulla appena, dinanzi agli uomini statici, eroi della massa, che si palesavano a lei, ma privi d’alone mistico che circondava l’estasi della creatura distruttrice.
“Non è nostra intenzione, madre.”
“Allor non saresti dovuto venire.” Disse.
“Siamo qui a dirvi d’aver forse preso errato giudizio su vostro disegno.” Si scagliò in atto provocatorio il sacerdote, in cieca fiducia riversa al successo del suo operato.
Mora accennò disaccordo. Era ferma, solenne. Polémi temette l’assalto verbale, ma quella, mentre sembrava che la Via Lattea stesse sgretolandosi in tante sue parti d’arrendevolezza melliflua, stava ad ascoltare, imponendosi in ogni sorta di profonda considerazione che lei esercitava sul suo ultimo seme. Il sacerdote si rincuorò.
“Il male è disseminato tra noi. Abbiam custodia dei pensieri tuoi, madre, sappiamo che furto è disagio in comunità di disegno armonico.”
“Qualcuno ha frodato un suo pari?” Chiese e dal suo tonò s’aizzò il flusso delle onde che ora ricoprivano parte vicina del suolo gelato. Il sale neanche fondeva l’acciaio di quel ghiaccio non terreno.
“Costui che ti portiamo in udienza ha rubato vestiario alla donna a cui ora si legava in affetto.” Disse e fece cenno ai due di lasciare in terra l’uomo dal volto afflitto, scavato dalle colpe. Obbedirono e questo ricadde in ginocchio al cospetto della madre.
Il demone calò lo sguardo in disprezzo del suo dire. Era però presidiata di sorpresa dannata la sua anima tutta, in apprensione, dispregiava il suo operato.
“Allor che di lui cosa desiderate che ne sia?” Domandò la madre.
“L’isola chiede giusto processo per il predone, che seppur ha possibilità d’uscirne incolpevole, è stessa provocazione sua prova inconfutabile di malata linfa.”
“La legislazione è un mio prototipo. Ancor non son certa dei successi suoi.”
“Chiedo venia, mia regina.” Disse il ladro interrompendo.
Mora non lo degnò d’attenzione, tanto fosse costui immeritevole delle lei finezze. Restava in preda alla stabilità del suo amore or tradito, ascoltava il suo sacerdote.
“Allor che la nascita nostra è frutto di ricordi che la madre ha degli uomini primi, si è giunti alla conclusione che per quanto, in visioni nostre, che son anche quelle della regina, il popolo di Mayda differisce dalla mortalità di quest’ultimi, essi sono comunque prede d’impulsi terreni, in frivolezza e malanni, violenza e antietica.” 
“Parla, sacerdote, le tue parole son volte e muovere richieste al Riflesso.”
“Sì, madre.” Polèmi ingoiò l’amarezza, fronteggiava la natura stessa incarnata in forme femmine. La sua diplomazia e il fluido delle sillabe erano incomparabili, inimitabili dall’antico.
“Cosa chiedi nel concreto?” Domandò la madre.
“I nostri pensatori concordano sul dir che le umane pulsazioni tenuta incatenate, con possenza della tirannia, hanno solo possibilità di sfociare in immoralità. Se invece queste hanno permesso d’esporsi ed essere regolamentate da leggi decise dal popolo, invece d’esser proibito l’uso a priori, possono mutare in risorse preziose per la comunità.” Riprese fiato.
“Il male striscia tra la purezza che tu modellasti dalla terra, madre. I ladri, forse, son tra noi e tale dubbio basta a dire di non frenare il popolo e le sue inclinazioni. Abbracciamo la debolezza, rendiamola fonte di nuova forza. L’isola vuol cedere all’erotismo, accoppiarsi e riprodursi. Nuove generazioni di grandi eroi. L’amore ispirerà l’arte nostra.”
Era tutto, la domanda era formulata, s’attendeva l’esito. Mora non emise un suono.
Il fiato di tutti era basso, trattenuto in aspettative.
“È questa la tua richiesta, mio sacerdote?”
“Sì, madre.” 
“Perché, però, in tal maniera, formuli il tuo quesito? Credi che non abbia veduto gli uomini celati ad udir il nostro dialogare? Sono tutti qui. I duecento miei figli. Si son radunati sotto il tuo scettro, sacerdote. Con quali vere intenzioni siete venuti a me?” 
Polémi non si scosse, sapeva che il demone, dall’alto dell’immensa sua proiezione, non poteva essere ingannato. 
“Madre, il popolo, solo, voleva udire la sentenza. Nessuno di questi, con la sua presenza oggi, ha motivo d’offendere la madre. Adesso muta la comunità. Sono unici spettatori del progresso.”
“Oltraggio è tracollo. Sfiducia, barbarie, violenza est rovina!” Tuonò.
Ecco che la luna tornò ad accendersi del sangue. Gli astri caddero come meteore immergendosi nella foresta alle spalle dei profeti. D’improvviso, il litorale tremò tutto, la scossa lesionò le pietre delle abitazioni. Caddero le stesse montagne. Polémi e i suoi s’accasciarono al suolo, terrorizzati. Gli altri, il resto di tutta la popolazione, uscì allo scoperto riparandosi come poteva. Il demone si scaraventò sul ladro, questi, troppo stanco, manco gridò, mentre lei spalancava le fauci, i denti aguzzi, non quelli d’una donna, ma d’un diavolo del massacro. La madre mostrava la bestia ch’era nel fondo del suo intimo. Affondò il morso al collo del figlio inginocchiato a lei, dilaniando la carne della stessa creatura modellata cinque lustri passati dalle mani che ora staccavano dalla bocca i pezzi delle viscere rimasti incagliati tra la dentatura. Il sangue caldo venne sparso in terra, la barba scura si marchiò di rosso, l’essere crollò. Il suo ventre fu storpiato, amputati furono gli arti, divorati gli organi e l’intestino tutto estratto a forza, tirato via dal ventre. Il suo corpo brutalizzato da una furia mai veduta fino al tempo, peggio di tutto quel che potesse esser legato al demoniaco d’una putrida immaginazione. I Maydiani non mossero un dito per placar cotanta violenza, non ne avevano la forza, mai s’attendeva un così macabro accadimento. Piansero in molti quella sera. Le scosse non mieterono vittime, ma un pezzo dell’innocenza del popolo di Mayda scemò alla vista del primo massacro. Polèmi fu il primo di loro ad alzarsi, tentò d’avvicinarsi a quel che rimaneva del corpo del fratello suo, celando l’angoscia.
“Sta fermo.” Disse il demone.
Il sacerdote obbedì. Il suo volto scuro si macchiò d’afflizioni, non poté resistere or che premeva la rabbia al suo cuore comunque umano e gridò straziato al cielo, maledicendolo. I Maydiani accompagnarono il tormento. Sopra i massi delle loro case, ora cadute, intonarono il funebre lamento. Il suono fu tanto immerso in immeritevoli crudeltà che anche la fauna tutta s’unì a loro. L’ode alla ferocia verrà, in volere della provvidenza, riportata in miti associati alla terra di Mayda, l’ultima conservatasi, sopravvissuta alla marea.
“Niente e nessuno può mai meritare in corpo tale atrocità.” Riuscì a dire il sacerdote tra le agonie del fiato. Le sue braccia inermi correvano lungo i fianchi, il corpo paralizzato dal dolore della perdita.
“Siate miei. Figli di queste mani che hanno ora trucidato la malata edera, per far rigogliosi i fiori puri che ancora perdurano. Le morte anime apparterranno agli ingiusti, a chi s’allontana dal mio splendore. Non temetemi voi onesti, ma amatemi in mia forza.”
La donna maydiana, che del ladro s’era invaghita, tradita pure, forse, dall’uomo che amava, gridò dal macigno più alto.
“A morte sia la madre!” 
Polèmi alzò il braccio per arrestare la repulsione. Le ombre s’erano appropriate del fisico, imbruttendolo, curvandolo sin al limite dell’indecenza.
“Di madre ora che tu c’hai tolto respiro, rimane l’illuso. Sei abominio, demone e come tale sarai trattato!” 
“Volete voi opporvi a me, dannati?” Gridava lei. 
L’oscurità emerse dal fondo della terra, inebriò il ghiaccio, ammalò i nemici.
“Lascia ora che il corpo sia preso in custodia dal popolo di Mayda, rispetta il dolore nostro, piangeremo la perdita per tre notti, appena. Poi combatteremo. È Casus belli, madre.” 
Polémi trovò rinforzi negli uomini che alle sue spalle s’agitavano con in mano i massi, le lance. Pretendevano vendetta. Salirono tutti sulle macerie, i loro sguardi arrossati, feriti. Guardarono il domani con avversione, or che compresero si sarebbe eretto su morte e devastazione.
“A morte la Tirannide.”
“Sparse in mare sia il sangue dell’omicida.” 
Alalà! È ribellione.”
“Libertà a Mayda.”
Amit!”
Mora li osservava, rigirava il cranio a vedersi nemica, ostile a coloro che avrebbe voluto amare in proprio.
“Allor è quel che voi desiderate? Combattermi?” Il suo rancore era feroce, aveva sangue, forse, innocente, alle fauci. La bestia guardò il corpo amputato ai suoi piedi, il liquido rosso ancora ribolliva sulle sue vesti. Fu disgustata dal massacro appena compiuto, ma s’era spinta troppo in là per ritrattare, cedendo al vuoto dentro sé che ora, persi i figli, s’accresceva. Senza indugiar oltre, si ritirò nella fiamma del cobalto. Anche lei piangeva incerta, tutti la videro, ma accecati erano i cuori dall’odio immane del risentimento.
“Illuminata dal bagliore della rossa luna fu il massacro.” Predicò il sacerdote.
Il demone s’avvolse dalle fiamme, scomparendo con in gola il rimpianto. Il male disseminato l’avrebbe tormentata fino alla fine dei millenni. Il magma tornò a racchiuderla. I più forti si presero carica del corpo del loro fratello, ripreso gli arti amputati, il busto aperto e il viso storpiato. Polèmi non osava guardare oltre, vomitò nauseato. Il puzzo delle viscere era rivoltante, non voleva aver ricordi del compagno ridotto ad essere un deforme pezzo di carne. Fu orrido spettacolo.
Maydala!” Disse la folla, intonando le grida di guerra.
La spiaggia fu proprio denominata tale, Maydala, la costa di Mayda. Tramandata fu l’accaduto in secoli a venire, in sorte, come primo massacro, buio impartito dalla rossa luna, assumente i colori delle iridi della madre. Gli astri avevano parlato sol quella sera, mai più dialogarono alla terra, disgustati da ciò che intravidero. La tormenta s’abbatté sui profeti che avevano perduto casa, ospitati nelle rimanenti. I pezzi del cadavere furono bruciati e per tre notti vennero sparse ceneri in terra, non in mare. Disonore fu attribuito all’oceano, gloria al litorale.
Iniziava la rivolta.

 

Lascia un commento