Disattenzione su ciascuna miglioria desiderata a volte da un ego che s’avvale di porsi illimitate ascese, sopravvalutandosi in suo dire, stimando, di molto, possibilità proprie. Mi rassegno al canone del non raggiunto, inespresso, perfetto in vetro, ma assente in viva percezione. Vortico evitando il necessario, da me scelto, in stupidità, essendo materia, preferendo il rapido delle figure, delle parole sgrammaticate ad esprimere tanto dell’inutilità smorta, ma stese al fine di consenso. Voglio questo? Sentirmi congratulare nelle scelte, non supportato nel cammino. Pubblico disattento di cui mi faccio ultima parte, la più infima, superflua. Giudizio impossibilitato, per tutta una vita, d’avere un giorno tanto sapere da dire, per certo, cosa io sia e cosa possano le mie idee modellare, essere impresse in eternità per cose d’importanza, di definire anche solo una pietra di nuova chiesa. Cosa germoglierà mai da tutto un niente interiore che tanto si distrae con ridicola semplicità? Nulla. Le mie voglie che sfumano, ipnotica moria del concreto, d’una vita che ora si colora d’eccessi, di ricchezza, d’una bellezza che sembra mai avvertire il tempo e fiorisce espressa in mille modi, però so, io, adesso, che la mia, di grazia, andrà volgendo alla terra, mai sarà d’aiuto, in mio possesso, armonia, ma s’adatta all’altro, autonoma, senza che io possa impedirglielo. Distratto da chi o da cosa s’appropria di gioia, realizzandosi da sé, in privazione di qualsiasi dolore causato dall’ambire. Con me è diverso. Ogni immagine che mi scorre dinanzi ha motivo di condannarmi, d’annientare il mio intelletto con propositi di grandezza. Troppo, forse, è il volere, ma è proprio l’esistere a disegnare limite, perché mai ad avvicinarmisi io, ogni volta, all’appagarmi, provo ribrezzo, ricadendo in balia di vagheggi, con concentrazione vinta, perduta, almeno, dal giorno alla sera; del dì che, distratto, adesso, passa rapido, proprio come per poco mi casca agli occhi un’altra vita, un altro nome, un’altra aria, felice, immacolata, e m’accorgo che non è la mia.
E provo, ma sarò stanco alla fine, ancora attendo. L’insoddisfazione assale quando svelata è la disattenzione. Tempo perduto per perire.
Ogni frammento di lastra possiede già un qualcosa a cui aspiro, a cui non arrivo io, che comunque rimango indegno d’averla per me, mentre loro sono lì a godersi fine, e non voglio cedere al confronto, perché ho concesso alle mie sole braccia di flettersi e cogliere i semi delle scelte di cui non rimpiango oneri, ma così è complicato. Il grigio del mondo sembra desiderarmi tale, non pronto a possedere guai, impossibilitato nell’apprendere, confuso, ignaro, disamine, rivolto al niente, ipnotico del dannato che è riflesso nel vetro sparso tra le mani di mille che cadono ogni giorno, disattenti. E giuro che se solo potessi vivere scevro da oscure riflessioni, sarei pronto a condividere, con ogni litorale annesso, quel che mi sprona a proseguire tra le rues dell’astratto, che mai so dove sfoceranno. È questa propria incertezza che m’atterrisce, del non sapere cosa attendersi, se fragile non riesco a definire attenzione, catapultandomi nel vero illuso del mondo, celato dietro schermo d’inquietudini, distraendomi, invece di rimanere, ancora, in essenza fissata al suolo, che è più vita di tutto ciò che s’annida proprio in morte bacheche, annotazioni frivole, rapide, costruite, appunto, sempre, per sola approvazione. La mia disattenzione segue ciò, ma non cerca nulla dell’altrui se questo è posto oggi per non essere presente domani. Come posso rendere allora immortale il delirio? Non fuoriuscirò mai dalla massa che m’ingloba nel torto, nell’accessorio, nell’apparenza. Son morto perché deconcentrato. Non mi basta sentir la noia per solo la pausa nel continuo, io la bramo come fosse respiro, e questo è male, è morte. La disattenzione, con metodo, tenta proprio d’interrompersi, di durar poco, ma come può estinguersi, il distratto, lasciarmi vivo, se di fianco mi si stende il mondo illuso racchiuso in rettangoli mobili d’acciaio? Posso io ora tenerlo saldo nel palmo d’una mano, come la natura fa con l’uomo, ma questi non si è ancora reso Dio e come tale, terriero, ha accesso alla sola frivolezza sua, al solo guadagno, al solo sociale, alle idee rapide, ingenue, definite da suoi simili. Quante volte son caduto in lui, nel distratto, e quante volte ancora passeranno sere nel non definirsi, nel dubitare ancora, anni, senza mai aver coscienza, ed è però diverso da dubbio critico, che è genuino, punto fondamentale all’ascesa del raziocinio. Disattento, infatti, io dubito di certezze, distruggo parti del mio essere e non ne aggiungo di nuove perché offuscate dal prodotto. Tanti fini pensieri interrotti. Ho nostalgia di loro. Riflessioni mai concluse a causa dell’abbaglio che subiscono questi miei occhi nell’esatto istante in cui riflettono il procreare artificiale dei sentimenti. Non voglio che mi si maledica il domani ed io non desidero ancora detestare tutto perché incapace sono d’accomodarmi in respiro non voluto. Però posso tentare, lo farò ancora. Possibile che sol mostrandosi essi, abitanti del vetro, mi rendano incerto su quel che m’aggrada? Basta così poco a svalutare lo spirito? Eppure, costruisco, lo faccio da sempre, ma sembra non bastare mai, rimango vittima, disattento. Un corpo di niente, armatura di carne rigida, che prima di veder luce, smarrisce un intero frammento di realtà segnato dall’illudersi d’essere certo di poter splendere. Ho rinunciato a voler brillare, in vero desidero soltanto, per ora, sopravvivere, ma m’inganno, non s’estinguerà il capriccio mai. Passioni crollano al prosieguo nell’impuro interesse urbano. Svaluto l’anima in sensazioni del commercio, nonché potesse valer molto la mia stessa parola. In disattenzione si muore ingenui, esenti dal male, dolci nell’affogare. Mi basterà allora cedere al sociale, distraendomi.
