C’era un ragazzo che perduto il padre in cantiere gridò.
Spegnersi preda d’un presente che glorifica morale dello sforzo anche quando, insostenibile, disamina lo scheletro. Per quanto le sue urla strazianti si propagassero per casa, seduto al banco, rimaneva immobile col corpo, fisso nella sua dimensione di mal intesa del decesso. Come poteva esser morto lì, dov’era chiamato ad operare per garantire il suo domani e quello del suo unico seme? Ci rifletteva, rigettando in terra il rancore asfissiante del suo spirito in pezzi. Sembrava che stessero le viscere venendo fuori, premendo violentemente, dalla carne grigia. Piangeva disteso, sciogliendosi in lacrime dello strazio più immondo, inimmaginabili, di quelle che deformano i tratti amici d’un giovane nel fiore dell’estetica. Credeva di perdersi in un clamore di sensi addetti al dolore più estremo, di sua prima veduta. Non riusciva ad arrestarsi, fuori di sé, incapace di placare i singhiozzi, stava mancandogli il fiato in gola. Solo al tramonto, Il ragazzo smise d’agonizzare, d’improvviso. L’angoscia, per un attimo, s’arrese, prostrata alla logica. Forse v’era un errore, insomma, quanto è inverosimile esser pressati dal cemento? Lì proprio cemento non ce n’era, in cantiere, così credeva. Suo padre gli raccontava delle calde giornate e delle grandi distese di prati, alberi d’ogni sorta che egli seminava; dialogavano ogni tarda sera quando egli ritornava, e d’incredibili espedienti, incontri fortuiti, storie avvincenti del mestiere, saziavano l’immaginario, condividendo l’inganno d’una redenzione. Quelle sere andavano a dormire insieme per scaldarsi dall’inverno, in mancanza d’un fuoco negli interni. Lasciti di ferite che, autonome, si rimarginano se insieme. Esistevano l’uno per l’altro, quasi uniti in una cupola di spazio siderale a sé stante, distanti, lì dove entrambi si rifacevano all’affetto del secondo al fine d’andare avanti, di donarsi forza contro il disarmo. Legame difeso dall’innocenza dello splendore, ma adesso mancava poco al buio, e l’encomio del dirsi salvi andava sfumando in favore del tetro d’una realtà infernale. Possibile che quella volta, il ragazzo, non avrebbe udito, da sé, la chiave girar nella serratura e la voce roca attirarlo dall’entrata?
Per lui quell’adulto sol contava, lì, tra le pareti giallastre d’un rudere disastrato che i due, da soli contro il cielo, avevano imparato a chiamare casa. Cominciava, da poco, a non odiar più l’odore acre della muffa, distraendosi nell’attesa del rientro dell’uomo dall’aria stanca, dismessa, dal fiato corto e dal corpo flesso, sintomi attribuiti al tortuoso rientro attraverso le vie della città ormai affollata in ogni parte del consumo. Il lavoro arricchisce l’anima delle creature in terra giunte prive d’ostenti, non può distruggerle, pensava. Dalle parole della società stessa, dall’istruzione e dai complessi del sociale, era quello a cui il ragazzo aspirava, un posto nel mondo, come suo padre gli aveva insegnato, e come lo faceva continuamente ogni singolo discorso del credo di quella vita che non aveva scelto d’amare, né di possedere. Come può essere finita così? Era la natura medesima ad assegnare ad ogni essere mortale il mestiere di sua scelta, riflesso dei piaceri suoi, uno spazio sicuro, di rifugio, capace di dar guadagno, d’arricchire appunto, di donar dignità ad una presenza che altrimenti risulterebbe trascurabile, ma cosa c’era di più erroneo che sparir così, esente da logica, tra le pareti amiche d’un diritto tanto banale e mancato? Fu la sua rassegnazione. Non stava di certo immaginandolo il baratro, era proprio lì ad attenderlo. Ricominciò a sentire male, le fitte allo stomaco lo assediarono a partire dagli organi. Tornò a morir dentro. Sprofondò. Non poteva restar inerme, avrebbe almeno, dovuto gridar ancora, per professare a chi ascoltava il suo sdegno per quell’ingiusto dell’oggi, e lo fece, per quasi tutta un’eternità. Si guardò intorno, tra le mura della bassa e cinerea abitazione. Contemplò, di sua scelta, quegli inesistenti piaceri che avrebbero dovuto appartenergli in quanto essere umano, i suoi interessi spogli, vuoti e lugubri, il pensiero dismesso d’apparire fuori posto, inadeguato a sopportare il martirio. Nulla del mondo gli interessava davvero ed era sicuro che mai nient’altro avrebbe potuto farlo innamorare a tal punto da farlo restare. Al ragazzo importava solo di quel dannato padre, donante la stessa vita in certezza del modo per, quantomeno, nutrirsi, e nonostante tutto, e il sovraumano dello sforzo, non era neanche bastato a quell’unico e stupido ultimo desiderio di gioia. Allor è così che il reale punisce chi come lui vien alla terra soffocando? Era ciò a cui era destinato? Sparire con sol la colpa d’averci creduto, ingannato da una certezza fugace impiantata dall’alto. Sembrava che l’universo stesse lì a prendersi gioco del loro respiro, d’essi stessi, gli ultimi, illudendoli di poter esser in pace per quel poco che durava l’esistenza e spezzarla, inerme, deridendoli, giocando al piacere del controllo su esseri dichiarati nati in fragilità, deboli, manipolabili, da un sistema stesso che s’avvelena autonomamente, deforme, malato, perverso nel non ascolto. Al ragazzo, dai pensieri, non seppe sfuggire. Nessuno lo istruì mai ad ambire. Non vide luce in prospettiva del domani, che per la prima volta fu colmo d’orrori come non lo era mai stato. Lo splendore d’ogni cuore va alimentato e di lui, un ultimo, non gli restava altro che crescere al fine di migliorarsi e di ricambiar tutto l’amore ricevuto da una parte del suo essere che or sentiva essergli stata, brutalmente, strappata, fatta a pezzi dinanzi all’impossibilità di sottrarsi a quel martirio. Non rimase più niente ad attenderlo. Suo padre non sarebbe più tornato a casa. Il ragazzo, nell’infinito dei suoi non uditi lamenti, reputò la vita un agglomerato di false diciture, ipocrite, volte al sol comando. Smise d’affidarsi al giorno, di confidare nel tempo e d’adottar cure al suo male. Agli ultimi non è destinata un’immensità. Sono abbagliati dal ritrovo d’uno spazio tanto ricercato, per poi crollare senza possibilità d’elevarsi, o almen così quel sociale volto al prodotto, nel quale egli prosperava, portò a far credere a lui che di solo aveva l’uomo che gli aveva dato fiato. Ora smorto, devastato, placava il suo fuoco e il cuore stesso, statico al bianco glaciale d’una luna di sangue che osservava da lontano il compiersi dell’atrocità. Il ragazzo decise d’adoperar quell’ultima delle sue scelte e fece presto cosicché il mondo non ebbe il tempo di sottrargli il libero arbitrio tanto preservato, lodato e glorificato all’immortalità dell’illuso. Si soffocò con le sue mani. Il primo privilegio d’una vita intera. Quella sera un padre non rincasò da lavoro.

