C’è pressione in ogni motivo dedito all’ascesa. Sapersi dispersi, vaganti in stagioni di dannazione, senza mai aver remore, è grande quanto ogni colpa, d’ogni pena subita ed impartita, perché è tanto male non conoscere sfumature d’essere vivi. Che incapaci di dire cosa desiderare, l’essere umano si rassegna in vita statica, posseduta ancora lì al cospetto dell’illusione in motivo di redimersi, d’andare in pace. Tal quiete mai s’avvede di palesarsi dinanzi ad occhi che solo vedono l’orizzonte, l’estraneo, senza propagarsi in comprensione d’eccessi volti all’intimo, senza addentrarsi in interiora che lo fanno carne. E se fossi io figlio d’un demonio? Cancro delle acque, parassita di vegetazione e cielo. Ho male in ogni parte, ed i pezzi augurano ingiurie, i miei stessi disturbi, la mia paura di domandare. Non sono sicuro di nulla, non sono certo di parlare d’analisi. Io voglio estender luce a chi di splendore non s’irradia, ma chi sono io per farlo, che forse son solo essere abbietto alle più putride e nauseanti virtù, uccisore e odiato, infermo di delitto. Sembra a me che l’avvento doni natura a chi di ragione non si prostra a far interrogativo di sé, di chi non s’accosta alla necessità impressa, in impeto, di scoprirsi, d’agire in tonalità dissimili a seconda d’attingere ad ogni fonte corporale e non, di caparbietà, affetto, lascito di rivolta e ancora altro che giace nel fondo d’un abisso che però, trascurato, scema livore in semplice consenso ad ogni credere di cui proprio il cuore non s’aggrada. È triste, ancora morendo, di non poter dir, per certo, cosa possa dar gioia ad ultimi tetri risuoni in cui il volto si fa grigio, in corpo mai assecondante, che, proprio, mai, d’orgasmo, percepisce, gradito, peso gravante su di sé e sul modo suo d’intendere il reale. È triste ancor sparire, avventarsi in vita donataci senza mai intraprendere percorso ligio al fine di definirsi, mormorando d’affanni, ed io stesso, che mai saprò riconoscere ogni parte che mi compone, perché creatura in terra, a cui s’associa dono d’intelletto, non ha potere nell’apprendere da cosa la sua stessa voglia di morte ha origine, non saprò mai dire cosa volere a causa della complessità della natura che m’appartiene e d’un intelletto incapace di definirla. Capisci che il rapido mi fomenta verso svalutazione di me. Sento che proseguendo ancor senza meta, in speranza che questa m’appaia dinanzi, è, forse, così dannatamente folle. Ho necessità. Compresi crescendo che questa mi fu imposta da canoni eretti su motivi del ridisegno d’umana prospettiva e ragione, di conformare il mio cammino al neutro, di fonderlo con altri intrapresi, esseri più veloci, rivolti alla meta. Conoscersi è modo di molestarsi, di dire quanto è difficile essere rinchiuso in un corpo deforme a tentare disperatamente d’amarsi, d’amare il detto, il prossimo, il lascito del cielo, che s’odia più d’ogni cosa. Il capir sé stessi vale più d’ogni stesura d’arrivo. Ignorando piaceri lasciti, ci si ritrova a far da tramite ad una passività del domani che scorre incurante di me che ancora non so apprendere, in continuo interrogarsi su cosa definisca mia gioia. Rimpianti d’ogni sorta è sintetico castigo, mai augurato ad un nemico di certezza, mai atteso per noi in lotta d’occulto malanno di solo respirare, senza aggiungere altro. Sopravvivere al pentimento, andar per vie accorgendosi dell’errore per poi non più ritornare alla passione, perché non si sa dire cos’è nostra visione di piacere. Almeno dal mio sangue, io non so interpretare segni sconosciuti delle mie voglie. Non so dire come iniziare a vivere davvero. Forse, proprio, comincia l’uomo a germogliare nel mentre s’accosta a lui la voglia di sapere cosa s’annida tra le viscere del suo recondito dispiacere.
Sono incompleto. Provando a delineare le peculiarità d’un volto solo, questo lascia il posto ad un altro, allor maschere s’alternano in gioco d’andare in malora, ad affogar in bisogni non acquietati, perché non si sa dir bene cosa essi chiedano a noi di far per corrompersi. Al modo proprio del sociale produttivo, s’è portati proprio a lasciar stare ogni aspetto caparbio d’entità umana. Io sono noia. I miei sensi, o almeno di quel che esse ora percepisco passioni, s’inebriano di tedio, d’uggia, imperfetto odio, e non ho brame in gloria, idee di rivoluzione, pensieri grandi o parole ardite, anche se ora dubito che queste, anche se presenti, possano arrivare a chi ora compone il gregge del dinamico, comprensivo nell’immediato non nella grandezza del dire. Io, che sono noia, non diverto. Parole di complicanza, in espressione d’un giudizio del mondo vergine, a completarsi di riflessioni incapaci d’essere capite ad un primo sguardo, smorzano la distratta attenzione, non s’alternano in voci e ragioni che sempre più si voltano ad ogni angolo nel cercare vita, mosse ad intendere di riempirlo di nulla, che però ha merito di placare motivazioni, illudendo uomini dell’inutilità di scoprirsi. Eppur, l’ho compreso, ed io non accenno sapere, perché forse, è sol sviluppo, mio più d’ogni aspetto, perché intimo, da preservare ad ogni costo di decesso. Ho capito che ho tanti motivi per ancora interrogarmi su cosa attendo da me e dal resto, al motivo solo d’essere, un giorno, polvere, esente da colpe d’ogni sorta. Desiderar che il solo riflettere su ciò che è stato non sia fonte di dolore. È questo quel che ancora io bramo e non posso dir se ciò è voglia. Dovrebbe mai essere prassi, non ho motivi per dir che il reale mi sia avverso, egli soltanto vaga veloce rivolgendosi alla fine, come fa il mio riflettere, idee di chi non s’intende. Sono io fragile, non l’esistere. Gli uomini s’arrecano diritto di ridisegnarsi, ma così è giusto. Ad anni, voglio avere desideri e poi mutare, e poi dubitare, contraddirmi, respirare, amare e volgere alla pazzia d’un cieco ristoro, illuso come s’inganna il cuore a placarsi se conosciuti son i limiti, ma non so fare altro. Alla ricerca perenne d’una magica forma per dire di star vivendo. No, non posso ancora restar stantio in moltitudine d’organi miei, di tanti miei occhi che scrutano il diverso. Eppur si trasforma la maggioranza, ma non accostandosi sempre più a quel che si spera. Loro sanno a cosa ambiscono, ma è incolta la ricchezza a cui s’aspira, perché, forse, ella non s’accredita al talento, è complicato dirlo. Forse, tal abbondanza che non rispecchia la natura di chi la possiede, per uomini d’ideali, non è sufficiente. In realtà ti dico, non lo sarà mai, sufficiente, qualsiasi tipo di prosperità, perché d’esistenza, l’essere umano rimane ed è infelice. Ignorando d’esserlo, ci si può ingannare, placarsi, apparire come chi si vuole. Ostentando corrotto benessere. Questo rende in pace? Non so dirlo, sono incerto, dipendente dal conoscere, assiduo, ambiguo, contraddetto, di quel che provoca avversioni, pregiudizio, ferocia di rancore. In che modo s’esecra tal cultura del mutamento? Soltanto plasmando essenza, assumendo il volto di filtri smossi, allor lasciando che la norma, pezzi di spirito, collassino in cerca d’un motivo. E forse, per un minimo, c’appaghiamo, ma così ci si contenta glorificandosi al niente, concedendosi ad un credere vissuto vuoto, senza pretese. Focalizzati al solo guadagno, ma non volto a migliorarsi. Non conoscersi è terribile. Mi affligge non saper perché reagisco a certi stimoli in inspiegabile maniera, o perché muto carattere ad ogni ambito palesatosi.
Si rassegna chi non sa cos’è. Ha paura di ritentare. Troppo vecchio ora per riprovarci e troppo giovane per lascia stare l’odio, di che s’è nutrito lo spirito da così tanti lustri dal solo dimenticare il perché si è cominciato. Non conoscendosi si è mutevoli, s’è malleabili, vittime d’altrui sensazioni, immagini, violenze. Non ho, di fondo, mia inventiva e questa potrebbe difendermi d’assedi di false propagande, io lo so. Non conoscendosi, senza domande, senza ausilio d’intelletto alcuno, ma di sola praticità, agire in massa, con braccia non sorrette da raziocino, si volta all’uccisione dell’etica tutta. So che è difficile. Omologato al rapido, la mia attenzione non regge per così tanto, implode in pochi attimi ed il processo per arrivare, un minimo, ad essere coscienti di propria fragilità, si snoda in migliaia d’accortezze, insulsi ai non riconosciuti bui pensieri. La verità è che ho paura di quel che possa scoprire identificandomi in me, moltitudine, dove non v’è niente di buono. È un inferno, mia Mora, lo trascorro insensibile, soffrendo ad ogni spasmo. Se fossi io violenza? Se fossi io la brutalità in terra? Dovrei soccombere? Arrendermi?
Non conoscendosi, si trascorre il giorno a far finta di star quieti, assecondando anche il male d’esistere, ma è così breve il respiro che trascorrerlo ad inseguire merce, prodotto, non possedendo codarda audacia per immergermi in ogni fitta del mio vuoto, è triste. Non voglio proseguire.