Offuscamento retina, se progresso è solo prodotto

Ci sia un sempre dove il progresso coincida, in presidio, con l’evoluzione tutta, è folle aspettativa. Oggi, più che mai, i due concetti si scindono in parabola d’impoverimento d’essere che fa fronte al nuovo intendere il mercato, distruttivo, in ascesa incontrollata su ogni fronte d’intuizione. Fame di progresso. Scienza anarchica vive, si sedimenta sul concreto della natura. Ora che il crescere offusca l’idea, che l’acciaio reca offesa all’ebrezza del Sileno, anzi la stronca sul nascere, non più si ha, da sé, motivo d’immersione in universo a proprio credito, nostro d’evasione dalla plastica d’oceano e valli. Quel che deve legare interpretazione al riflettere è coincisa al solo concreto d’un mondo incolto, spoglio d’inventiva non legata al guadagno, e sol di essa, adesso, si alimenta. Supporto gradito è luce in cammino d’ignoto, ma così, d’unico mercato, non sono più tenuto in vero della riflessione se non inerente alla compravendita. Perché distribuzione definisce decisionale ascesa? Ha riscontro l’incertezza su ogni parte che dell’umana giacenza si mescola all’artificiale impulso di soddisfare la massa acquirente e non più è volta a decidere le peculiarità d’un domani. Il prodotto s’è propagato a definire il concreto dell’immagine, del fantasticare sul cielo, che ora, erroneamente, è approvata come luogo d’infinita conoscenza compresa, non utile se non volge all’acquisto. Tutto ciò è così recente che forse non lo interpreto dal distante del mio lume annebbiato dal tedio, limitato in quanto terriero, io lo so. Ringrazio il cielo d’ogni volta che son capace di dire grazie ai miei limiti d’esserci. Ringrazio ancora di sentirmi uomo con la voglia morente di percepire il mito degli elementi penetrare caparbietà, ingiuria e codardia, forse, d’uno spirito spinto a conformarsi, a spegnersi, a dirsi incapace, antiquato. Offuscamento dei miei occhi mi dà terrore. Ho paura di smarrire la consapevolezza di star distraendo il raziocino con futili cose, evitabili come s’evita molestia di psiche. Ho paura di non saper più gestire i miei impulsi, tanto che infierisce l’immagine, ponendo in piano secondo la vera evoluzione, in direzione d’armonia, di pace ambita da quel che il tempo ricordi l’avvento. Ho paura di non più distinguere la cieca idolatria a muover migliaia di coscienze all’approvazione del distacco d’uomo dal reale che ha promesso d’intendere e che ora si fa landa disseminata di sola merce. Siamo più noi connessi agli astri, insomma, è quel che crediamo da sempre, il distanziamento è però progressivo, ha origini dal libero esercente, si distacca dalla comprensione e si concentra nelle mani di pochi resi. Il progresso è giusto, mia Spora, mi permette d’esserci, di sentirmi ancora, m’aiuta, mi stimola, mi dona incertezze, livore, sorrisi, dubbi. Il mio apprendere, un desiderio che mi logora dalle viscere del fervore, è tenuto ad espandersi, arde farlo, ma così, ai suoi istanti è marchiata assuefazione, troppi molesti stimoli, creati ad artificio per espressione di non scelta, d’abbattimento di fantasia, lo ingannano col perfetto ideato in ferro. Massa scevra proprio dal creativo non ha modo di contrapporsi a promozioni ingenti che fanno d’oro anche quel che acceca, che offusca il senso, imprimendo opzioni, campagne non più di confine, ma di propaganda.
D’anime, oggi, a distanza d’anni, vedo solo decesso, mentre il corpo si completa, s’adorna d’acciaio, plastica e vetro. È questo il giusto fine? Da che lustri a questa parte che scrivo non voglio veder tanti sguardi posti a fissare il vuoto d’oggetti inutilizzabili sparsi in sbarre su ruote ed è solo mio ambire, impuro, appartenente ad uno stolto che di cultura non s’ammalia. L’offuscamento delle mie retine, sol mi chiedo, che conseguenza possa avere in relazione ad un domani che si mostra dilaniato da ferocia d’intelletto che non si palesa, in favore del correre vuoto verso la prossima viral corrente che non è più d’arte, ma di consumo. Non voglio certo che i miei occhi, l’immaginazione che mi dà tormento scelto, mia più d’ogni bene che mi colora il dì, possa essere resa inutilizzabile da uomini che non più fioriscono con voglia di miglioria di sé, di studio alla natura che sia d’interno alla carne o all’esterno delle innevate cime d’odio, ma di solo ricchezza che s’espande irrefrenabile, però, togliendo ad altri, perdendo in coscienza, producendo milizie, cognizione mia che va ad assottigliarsi, a legarsi al baratro. Andiamo bene così distratti? Andiamo giusti così infermi di sapere? È sol maschera quel dire di aver premure della crescita del generale, io vedo solo nuove crudeli modalità d’accrescere patrimoni, senza sorta di scrupoli alcuni, anche se il prodotto logora l’ingegno dei consumatori, e quindi mi domando se di moralità ora non s’addensa l’oscurità del secolo. Merce disegnata al sostegno plurimo si macchia di colpe di star possedendo, assurdo. Consapevoli siam protetti, ma così, assediati dalla sola materialità, morta con corpo, sia ha oscurata la strada. Bloccati, sol questo, smetti, aspetta, io spero, lo chiedo a me stesso da sempre, che così nel correre io mi ci perdo, e forse, anche molti altri smarriscono sé stessi nel mentre. Fermati a riflettere prima di produrre ancora, azionare le macchine, che son giuste, vere se assecondate con giudizio. Preferisco ancora avere modo di disprezzare che d’essere sventrato di sensazioni, tormentato nella prassi del mio vuoto, con retine offuscate dal nero d’uno spesso vetro, la pelle arrossata dal sintetico dei tessuti, la ragione privata della capacità d’intendere, strappata, in ferocia, da miei stessi simili, con non a cuore il futuro d’un sostenitore accanito allo sviluppo. Il loro crescere, la tua maturazione, il nostro di progresso, concepito per conoscere, per esserci, per dialogare con natura e sensazione. Il male, il mio rancore non più amato, morire senza aver vissuto.

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