C’è da dire che a tal modo la fede occulta nel Riflesso stava propagandosi per tutta Europa. I Monaci, o chicchessia incline alla dannazione, andavan per vie italiane, tra antichi borghi di nera pietra, disseminando la parola tra i giovani sbandati che dalle province s’avevano ora a sognare onori conquistati al modo di farsi profeti. Credevano loro nel buio primordiale, di creatura in legame pronte a possedere corpi d’uomini e donne, fede nei miti di creazione, di gelide stelle e mortuarie galassie. Scrutavano gli orizzonti al calar della sera, poco percettibili ad occhi profani. Nel periodo in cui gli scritti di Cesarotti riflettevano sulla lingua e il suo uso s’espandeva abbandonando la toscana influenza, rivolgendosi quasi alle cime dolomitiche, ecco che in voracità non conforme, quelli ancora, ridotti solo in tormentato spirito, da fisico smorto, intelletto delegato al sol pensare al possibile legame, non avevano altro che speranza, voglia di fondersi ai profeti, fuggiti alle persecuzioni. Andavano blaterando che c’era solo una delle creature di Genesi lì’ posta nell’umano reale. Tutti gli altri demoni avevano abbandonato il brodo d’esordio nel mentre si faceva strada il primo oceano. Loro, i frati, eran in molti però, non avrebbero potuto condividere le premure della madre, se questa ad essi si sarebbe mai rivolta. Ce ne sarebbe stato solo uno degno d’ascendere alla vetta presidiata dalla madre.
“Camminano in mezzo a noi, chiediamo di portarli dinanzi a chi di questa tunica s’adorna.” I membri della casata possedevano oscuri vestiari, perseguitati dalla morte che sembrava afferrarli sempre in violenza. Cercavano nuove reclute in terreni calpestati da passi incerti, dileguandosi tra le murature buie dei vicoli, sfuggendo alle repressioni delle guardie. Erano agili, perennemente in moto, cambiavano meta di continuo, sempre muniti di parsimonia, costanza in cuore. Così dediti alla pura sodomia di sé, che malnutriti, andavano ad accatastarsi gli uni sugli altri, gemendo di dolore, accumulando cadaveri martoriati per le storpie strade, sterminandosi in atroci pene.
“Giulia Tofana c’avvelena d’ego.”
“Noi speriamo nell’eterno.” Dicevano.
In uno di tali centri di così basso ceto, in un paese dimenticato inoltre dalla grandezza di Dio, camminava un ragazzo, affiliatogli era il nome di Lorenzo, un contadino delle terre incolte. Poneva il corpo in quei lugubri tormenti dove le alte mura, che sorreggevano la fortezza del Mastro, si stagliavano contro la veduta delle colline, ma lui era in basso, così collocato, come lo era l’immaginazione sua. Un intelletto posto al freddo, innocuo, malandato. Un corpo da dar motivi di temer naufragio di provvidenza. Il sole calava in morte, il freddo di novembre penetrava nelle povere stoffe di cui il ragazzo s’adornava. Il petto che rabbrividiva si ritraeva ogni qualvolta il pesante fiato si faceva smorto. Un centro abitato di così poche anime da neanche aver censimento, controllo, potere decisionale al domani che sembrava, a quei viandanti, così sempre incerto, di poco conto. Sparivano in solitudine quasi per le maggiori volte, gli ultimi a subir i malanni d’epidemie, a non far altro che di pane e frumento per spingere all’estremo un’esistenza che non sentivano neanche loro, che passava grigia, come era proprio l’indole di Lorenzo, in timidezza repressa dal duro lavoro a cui era sottoposto da pochi anni alla nascita quando fu in grado di muoversi autonomo. Le vie eran contorte, curve, briciole di pietre si contorcevano risalendo la cima dove dal belvedere s’avvistava l’intrusione straniera.
Le poche case eran illuminate ora dal bagliore delle candele basse, le pareti di pietra incastrate alla ben che meglio, le porte lignee. Dalla via principale, che portava alla vetta, s’inoltravano in lati ciechi dell’avvallamento, atroci oscurità di celati lividi misteri. Il vento tagliente scuoteva la chioma nera di Lorenzo che all’ora tarda andava proseguendo con in anima la più tenue delle sensazioni, di ristoro quasi. Il suo passaggio era segnato da sguardi di rovina dei compaesani che tutti conoscevano la controversa natura sessuale degli eccessi suoi. Un vecchio lo osservava dalla soglia del suo ingresso, ora rincasando. Gli occhi quasi fuoriusciti dalle orbite, le ruvide rughe che s’aggrottavano in un’espressione folle. Lo andava maledicendo, Lorenzo ne era sicuro, ma quello scomparve rapido.
Il ragazzo camminava risalendo. Stava proprio all’esterno d’una curva così ristretta, da quasi tornare indietro con passi volti, paradossalmente, alla successione, quando una sagoma gli venne contro gridando:
“Tu sai dove la madre si rintana?” Era un uomo indossante una di quelle tuniche così tristemente note in paese. Lo scosse per le spalle. Il ragazzo cercò di fuggire dalla stretta, ma quello tremava su di lui riverso.
“Tu da lei ti dirigi, ragazzo?”
Il volto del monaco era scavato dalla fame. Vermi a danzare sulla sua pelle grigia, nutrendosi dell’epidermide. I capelli bianchi, caduti a causa della dannazione con cui, autonomamente, si flagellava. Le mani scarne e prive d’unghie, dal sangue acido ormai solido che si mescolava in piccole croste sparse in ogni meandro della persona sua.
“Va via!” Lorenzo ora si ritrasse indietro.
L’essere, si capiva, era temprato dalla pazzia tutta. Giunto alla fine del respiro, sprofondava, si contorceva, non pareva neanche più essere uomo, ma sol putrida carne.
“Noi cerchiamo la madre.”
“Non so di cosa tu blateri, dannato.” Rispose il giovane, stando sul fare ingenuo, ma invece sapeva bene di tutto ciò che si sarebbe da lì susseguito. Era, però, ancora alla base della collina, pensò, bene, di rimanere sulle proprie per il momento.
“Non salire in cima, ragazzo. La mia vita è giunta al termine, abbi tu pietà di me.”
“Chiedi tu perdono a Dio, io non posso salvar l’anima tua. T’accoglierà, s’avrai misericordia.”
A questo punto rise gracchiando, le fiamme delle candele interne che si propagavano più forti a causa nel fitto buio, che, tra poco, avrebbe invaso ogni visione.
“Lei è qui. Lo so, il credo l’ha cercata per così tanto.” Ora ricadde al suolo gemendo, il dolore lo avvolse in una stretta fatale. Lorenzo pregò che l’uomo non fosse afflitto da chissà quale piaga che avrebbe potuto contagiare anche lui. In paese proprio, tutti lo avevano avvertito della possibilità che un ordine ecclesiastico avesse scavalcato le mura, penetrando negli interni, assecondando oscuri disegni. Portava ora lui la peste? O la natura illuministica dei dotti? Questo, però, a Lorenzo, non sembrava proprio avesse modo di perpetuare nei segreti della ragione, o se ne possedeva alquanti nella persona, non di certo li rivelava, neanche in morte. I polsi del monaco erano tagliati. In distanza lui s’alternava alla debolezza d’un anziana sentenza, ma i suoi tratti, ancora non del tutto corrotti, mostravano comunque, forse, un giovane uomo, dedito alla deformità che la fame fa delle vittime di cui abusa.
“Non dicere ille secrita a bboce.” Pensò il ragazzo.
“Torna a casa. Torna da dove tu ti distanzi!” Si contorse quello, le viscere stavano implodendo dall’intimo della sua persona. Lorenzo, che di massacri di bestiame ne visionava ogni giorno, si convinse, dal suo basso rigore ed etica, che quel che avveniva dinanzi a lui, al di sotto della volta spenta, non fosse diverso da ogni bovino da lui squartato a freddo. Allor attese che il massacro si fosse compiuto, assecondando i piaceri suoi, perversi. Lorenzo deformò i tratti, si compiacque nel vedere perire uno sconosciuto in lotta fin allo stremo con un malanno della psiche sua.
“Vattene! Non oltrepassare queste curve. Stanotte la madre parlerà!” Gridava l’uomo che moriva.
“Lei è su, alla fortezza rincasa? Non è così?”
L’uomo smise di parlare. In rigor mortis la rigidezza delle membra fu percettibile, emanò l’ultimo estremo respiro, dissanguandosi. Lorenzo sorrise, le fiaccole lo adornarono di macabri onori, tingendo il suo dire di cordialità malata, da far terrore anche alla più rude delle creature. I vermi presero a nutrirsi del cadavere.
“Cosa fai qui?” Una voce familiare si stanziò alle sue spalle. Il ragazzo si rigirò al seguito del suono.
“Cos’è accaduto?” Erano tre dei suoi alleati. Ragazzi del basso, di vita, come tali si definirono. Tre figure avvezze ai campi, al sudore della fronte, cotti dal sole, le mani già ruvide in tenera età. Pietro, Marcio ed Alessandro erano eretti a guardar oltre la figura del loro amico che a loro si rivolgeva con affetto, ma sempre in vece di quel fare alla base del ceto ingrato.
“Sono qui.” Disse Lorenzo, la cui smorfia si contrasse in orrori. Già le rughe vistose si definivano in un viso tenue che comunque ancora si riversava, genericamente, più alla natalità che alla morte.
“Chi s’accosta a te?” Chiese Marcio, dai capelli rossi, i cui antenati avevano abitato l’antica terra delle nevi, spinti ancora più al nord delle alpi.
“Uno degli uomini del Credo. È morto ora. Non temiate sue congetture.” Lorenzo fece per dirigersi a loro. I quattro parlavano colti nonostante l’umiltà delle loro origini. Istruiti erano costoro dalla notte e alle tenebre stavano loro facendo ritorno.
“Sta fermo, tu!” Disse Pietro, arrestando l’avanzata dell’amico. Il più ancora abbietto al sole, i tratti assottigliatisi in presagi orientali che però s’arrestavano all’italianità della parlata e del gesticolare incerto.
“E se costui aveva piaghe in corpo? Si dice che i monaci abbiano ricoperto le mura della fortezza con unguenti. A Milano queste sostanze portarono peste, essa contamina con la sola parola.”
“Non credo che l’uomo avesse morbo, guardalo, Pietro. Egli è morto di stenti!” I tre ragazzi appena giunti al cospetto del compagno osservarono da lontano il caduto, le cui finiture erano marce, malate, distorte, di condizione tipica del non nutrimento.
“Perché vanno accalcandosi alla morte? Contorcendosi dalla fame?” Alessandro era il più piccolo, appena dodici anni mostrati alla crespatura incolta della sua chioma. Gli occhi tra i più comuni, le movenze anche.
“Non capite, stolti! Son giunti a noi!”
“Allora la madre è qui?”
“Non posso saper questo, ma l’ordine è venuto in terra nostra. I monaci risalgono la collina, necessitano d’essere accolti.”
“La fortezza. È lì che lei si rifugia?”
Lorenzo si pose in meditazione. Rifletteva sulle dinamiche, mentre una donna spiava tendendo lo sguardo tra le crepe della povera muratura sua. Guardava i ragazzi con occhio smorto. Un cuore rivelatore batteva nelle pareti dove quelle ombre rimanevano serrate in casa, non prestando degna compassione nei riguardi della morte che i paesani avevano ora sulla propria soglia. La notte gelava, sembrava però che il fuoco del mito alimentasse lo scenario. Da dietro le case cadute, il sole stava rintanandosi. Tutto il paesaggio, di meridionali accorgimenti, si faceva tetro. Da sopra le teste loro, i ragazzi udirono schiamazzi, dolore, malata afflizione. Qualcosa accadeva lì in cima, qualcosa che aveva indosso la violenza plurima, d’imprecazioni macabre dette a voce di sevizia. A Marcio sembrò che le stelle volessero parlare a lui, mentre Alessandro, al cielo, vide tingersi di rosso alcune parti d’esso.
“I demoni si legano agli uomini, sappiamo della magia loro. I Monaci ci hanno istruito per questa notte. Guarda in cielo, luna rubet.” Ed il satellite era sì di sangue, rosso malanno.
“La madre però giace già legata ai discepoli d’una certa casata, scelta al periodo del diluvio. Così dicono i testi. Perché ora cerca nuovi esseri a cui unirsi?” Pietro s’opponeva alla certezza dei suoi.
“Deve essersi estinta codesta famiglia. Ora lei cerca nuova dinastia a cui fondersi.”
“Son fandonie. Perché la madre dovrebbe proprio scegliere la terra nostra? Qui niente s’illumina di ragione, la rivoluzione è lontana, noi siamo la pacatezza dell’ignorare. Siamo il fondo del mondo, il basso, il letame.”
“I profeti nati dalla madre erano dei semplici.”
“E con questo a cosa tu aspiri, Lorenzo?”
Il ragazzo guardava in alto, d’un futuro radioso s’inarcava la fantasia sua. Dei tre era il più lesto, d’un indole selvaggia, irrispettosa, pessima mole, corrotti lessemi. Già in lui si palesava un fine ben stabile.
“Avanziamo.” Disse e gli altri obbedirono con rimorso.
Lorenzo al rifiuto avrebbe reagito in malo modo, loro lo sapevano, allor meglio non contraddire propositi che dalla bocca sua si svelavano con fermezza. Lo assecondarono per paura.
Più che salivano quelli trovavano morte. Calche di corpi che già giacevano in decomposizione erano accatastati per le strade, storpiati, deformi, tutti ricoperti dall’oscura stoffa, donne ed uomini rispediti, atrocemente, alla terra.
“Aiutateci!” Imprecavano.
Molti ancora camminavano in fila e altri ancora cadevano venendo calpestati dai compagni.
“Non mangiano questi. Sono morti molti d’eccitazione alla sua venuta. Quando un monaco aderisce all’ordine, è inebriato dalla fede, tanto da smettere d’occuparsi del corpo suo. Son giunti da lontano, allo stremo. Credono che il demone solo accolga chi a lei si è affidato in tutto, abbandonando condizione d’uomo e imponendosi come dominato alle pulsazioni sue. La loro fede gli impone il digiuno, la tortura e l’orrore.”
Alessandro era nauseato al puzzo dei cadaveri. Rigettò un paio di volte disteso tra le pietre delle abitazioni.
“Maledetti!” Gridò.
“Perché nessuno del paese interviene? Perché non fermano il massacro?” Domandò Marcio, la sua perseveranza contorta in visioni deviate del domani. Il ragazzo pure, scambiava colori e parole, balbettando dicerie.
“Dopo questa notte, le famiglie nostre s’adopereranno per rimuovere i corpi. La madre ha pagato il silenzio, compiendo la scelta delle spesse mura della nostra fortezza al fine di non mostrarsi alla società incomprensiva. Ha scelto il paese isolato per riservatezza che mostra.” Lorenzo proseguiva ammaliato da tanto sangue corrotto, rigettato in terra. Così tanti morti d’infedeli umani lo facevano lieto.
“Ma noi sappiamo quel che sta qui accadendo.” Disse Pietro.
“Non dicere ille secrita a bboce.”
“Si sta compiendo dinanzi agli occhi nostri il rituale della scelta. Eran millenni che i monaci attendevano. Guardate! Lei s’unirà alla nuova famiglia, cerca nuovi corpi, i demoni non sopravvivono al mondo umano se son lontani dall’essere a cui s’affidano.”
“Pane! Chiedo solo del pane!” Un monaco strisciava ai loro piedi, li supplicava di carità.
Lorenzo, dall’alto, gli sferrò un calcio in pieno viso. Il corpo fu di tale brutalità che quello si rigirò morto sul fianco.
“Per tutta la vita han perseguito nel disegno della madre e giunti al suo cospetto la rigettano per insulso malanno corporale. Stolti!”
Si fermò, ci fu silenzio per un instante e anche si placò lo strazio dei cento che si sorreggevano alla fede, forse, per l’ultima volta.
“Sapevano cosa sarebbe accaduto stringendo accordi con l’occulto. Il potere ha prezzo, sangue è tramite.” Proclamò il giovane.
Gli altri tre rimasero interdetti, terrorizzati dinanzi alla brutalità del loro compagno.
“Perché noi saliamo? Non siamo parte del credo.” Si rivolgevano a Lorenzo.
“Voglio che noi ci presentiamo alla madre. Potremmo a lei unirci o aver le viscere storpiate dalla ferocia del Riflesso.” Lorenzo sorrise.

Alfred Kubin (Austrain, 1877 – 1959) Drowning (La Noyade)