Non ci sarà Luce neanche quest’anno

Crescendo in abulia e catalessi.
Vedo un futuro tetro, di montaggio privo di clientela che per tanti di giorni, subito il decesso dei prodotti accecanti, si rintana in specchi di vuoto. Resi loro negligenti dagli acquisti di decenni passati, incapaci al vero guadagno, automi. Saranno inefficienti anche solo per vendita e critica. Da creature a ingranaggi di spessore. Domani stantio.
Dire che il vetro è organo d’uomo oggi e come tale, forse, non lo spero, ma va a sostituire l’esausto con apprezzamento sintetico, illuso, mortorio. Per Pavese ogni caduto somiglia a chi resta, ma sempre meno esseri s’associano al reale ristagnando in fugace beltà d’universo costruito per accogliere insicurezze, in vetro. Queste, presidiate, difese, preservate, non si palesano in malanno e così non v’è bisogno alcuno d’affrontarle. Pochi restano, coi sensi, al mondo. Ecco, son proprio tali povere creature, coi pensieri rifratti alla terra, alle manie sue, che non sento vicino a me, e lo vorrei, mia spora. Quando acido è divenuto anche solo il desiderio costretto al dialogo con i molti, esponendosi sempre più in correnti non appartenenti a mia immagina che mi corrompono d’intima distrazione, frenando miei parti, colpevolizzandole di solo esistere. È l’unica strada questa? Ti capisco incerto mio mondo analitico, anche io vorrei essere tal mutevole, diverso, così da ignorare il mio solo. Continuo pensare, continuo farsi del male. Pluralità non mi è nuova, c’è nata in me. Basta, perché carente di supporto non vivo, ma in vero dico che neanche io supporto me stesso, come potrebbero altri farlo? Io sono tanti volti in disprezzo. Nessun pezzo che mi ricuce s’incastra a quello dell’ammesso, ma poi che dico, che c’è il via libera, ma consenso d’intelletti che hanno comando su media dimora, mia spora, quanto valgono? Mi chiedo qual sia il valore della massa, ma seppure questa è nulla, allora la mia forza va in negativo, non può confrontarsi, non ci si pone neanche il problema. Neanche abile nel parlare a cuori naufragati in inesattezza. Son ancor più nulla di sconforto plurimo. Non avrò pace perché riprendo e ritorno al contare. Sono vittima io d’un progresso che non è più sentito alla svolta. È un delirio di continuum e odio mio che s’accascia su un concetto e poi l’altro è insulso e poi l’altro è niente. Un reale affidato al caso di cifre, monetaria influenza e non al dialogo, a regola posta d’idee sostenute d’anime critiche, in dubbio perenne con sé e col resto, forse è morte. Crescendo m’incurvo, neanche oggi son in quiete, non mai lo sarò. La verità è che non vedo luce in movimento, perché proprio relazione del vuoto mi compiace, spogliandomi d’umano astio per colmarmi di cosa? Prodotto e ciò che va per approvazione comune, della massa. Tutto ciò che piace, che vivido ha influenza su chi ascolta, non dice il vero, perché lega l’idea, se così può definirsi, a quel che non va alla stesura di moda e interesse, di sfuggita al rapido d’un giorno creato in ferro. Il linguaggio che muta e s’assottiglia per espressione necessaria di soli bisogni è morte, com’è morte logorare lo spirito quando in eccesso si ribella però rimane incapace d’esprimersi. Il nostalgico è molestia, ma non v’è niente dell’avvento che ora ho voglia di far tornare tra il grigio smorto di città dolenti, non fraintendermi, mia spora, questo è puro prosieguo, il solo dire di star andando, ma dove? Mi pesa, mi culla la cifra, che non ci sarà luce su colli di mia ruvida cute. Mia spora, ho paura, di gergo più non mi compiaccio. Mi reivento, mi nutro e vado avanti, ma nulla migliora e niente ora più mi sprona a restare. Tento il riscontro d’una trama che prosegue già segnata, certa, tediosa. Nuova linfa, la bramo in pragmatica, in sintesi e lessico. Non amo, non grido, non cerco, non vivo. Non ha modo di sopravvivere al ricambio, rapido, crudele, chi s’accumula nei percorsi, che va avanti per incerto ed è ancora a subire il male d’una gloria che ha sempre ricercato in torto ed adesso s’accorge di quanto poco possa calmarlo. Allora d’arte non più mi disgrego. Non ho domani. Son io che non so parlare a voi? Non ci sarà luce, né oggi, né allora n’è stato, né sentenza. Quest’anno è peggio d’allora e ieri avanti fu peggio del trascorso. Male ovunque. Il pessimismo di credere di star volto diretto all’arrivo. Non v’è, però, confine. Sol piovono dal cielo risentimenti. Adulazioni e senti diversità, ilarità dell’acido che però prosegue, è accettato, al contrario del tuo ellenico. Sono io il problema, sprofonderò, almeno una mia persona, almeno un cuore, almeno un raziocino, ora non so bene identificarlo in mezzo al mare di limiti che m’arreca il fiato. Forse, il futuro è nero come fu mai un tempo, ma non ho io la forza di proclamarmi in vero, non ho niente d’unico, giaccio inascoltato. I miei anni passano rapidi e molesti. Io lo so. Non ci sarà luce neanche quest’anno.

Leonardo da Vinci, San Giovanni Battista, 1508 circa, Olio su tavola, 57 X 69 cm, Parigi, Musée du Louvre

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