In invidia si concentra il forte d’ambizioni dubbie. Carismatici intrecci di provenienza indegna hanno da credersi indicibili, sovrastando domande ed opinioni. Invida s’è accentuata dal presente mio ignobile, di certo corrotto in prassi del confronto infermo, in continua messa in discussione di sé, ma non in gentile indole è questo continuo incerto se messo al pari con esseri la cui vita si discosta in eccessi dal respiro che mi fa unico in quanto radice di terreno bruno. Porsi in discussione è mai cosa giusta, ma rincorrere trionfi non miei a cosa può giovare? È tanto invidiare. Ancora mi preme dire che lo sento in forma d’essere certo d’esistere, unica pulsazione a rimanermi amica, tanto acida quanto necessaria. Rivalità con chi non concorre nel tuo proprio esserci, è tanto stupido. Saper quanto è difficile essere te, Catilina, è per forza unico sapere che ti compete dal tuo preludio, dal primo giorno in cui vedesti luce, la vetta a cui ambisci da per sempre in tumulto che sta dilaniandoti interiormente. È proprio la tua indole, predisposta all’eterno d’una potenza che rincorri da sempre, a star consumandoti, non te ne accorgi? Di per certo che vedi successi, tu Catilina, vicino ai forti, ti chiedi quando verrà tuo giorno, e mai brilli, continui a spegnersi all’alternarsi d’ogni sole. Invidiare uomini, che pur certo su seggiole d’oro si seggono al comando, è forse superfluo. Essi rimangono carne, incerti, afflissi per natura loro avversa. Per questo tanto è folle voler desiderare vivere altre esistenze, ma il tuo dolore sta uccidendoti, non posso io compatire chi nasce in fango, son capace solo d’immaginare quale immensa tristezza possa portare un’infanzia spesa nella Suburra e manco questa ti compete, sei di nobile stirpe, ma d’onore perduto. Allora chi sono io per dirti di star errando, Catilina? La tua invidia è così concreta, si discosta dalla gelosia più anarchica perché di natura interna, in pulsazione, sentimentale quanto sono le tue manie di farti grande, eterna pietra in umana storia. Il materialismo che disarciona martoria coscienze che solo desiderano essere in pace. Eppure, l’oggi tal dialoga con suoi fedeli, gli dice d’ambire al possesso del diamante, unica via per ottener congedo dalla paura. Ecco, il riflesso dell’impuro continuo confronto con le antiche stirpi e gli imperi d’oriente, sotto il comando d’un solo uomo, che s’stendevano infiniti. Cosa porta essere portati continuamente al dire d’essere peggiori d’altri? Di soffocare, Catilina. Porsi a commiserarsi, ad accusarsi di non aver raggiunto gli onori di chi questi li detiene da sempre. Continuo paragone coi forti senza supportarsi tra classi della terra, gli ultimi. Solo s’imitano azioni dei potenti.
“Ista quidem vis est.”
Questa è violenza. Sì, lo è senza ombra d’un dubbio che deve estendersi, in mio dire inutile, inascoltabile, al solo noi. Catilina, in realtà ti dico che anche Cesare dovette definirsi inferiore all’età dei trenta, abbandonarsi allo sconforto di non aver raggiunto possedimenti di chi gli è stato superiore, ma chi può statuire canoni della gloria? Non c’è Dio a parlare agli ultimi e se fosse qui presente vedrebbe di cattivo occhio questa continua umana tendenza a mettersi in risalto, offendendo suoi pari, che tali, in possessione di vaste ricchezze, sempre eguali a te perdurano, in quanto soggetti alla morte sanguinaria che non si piega a timori e molesta incurante d’agiatezza e fragilità. Le difficoltà di chi nasce in Suburra e arriva agli allori è grande, come in gloria si estende chi riesce in tale impresa, non è il tuo caso, Catilina. Avresti così tanto voluto essere di più. Io, come te, non sono niente, neanche son amico dei forti. Pensa a me, sono debole da solo, null’altro ancora mi conforta a dirti di star male interpretando il presente tuo, ma voglio parlare, insomma, se questo anche m’è negato, cosa mi rimane? Tu puoi essere di più. Non merita tua gloria chi guarda con occhi di brama i tuoi possessi, sii allora tu forte per te. Anelo a circondarmi di chi ravvisa speranza in occhi miei rincuorati dal veleno del definirmi un ultimo e non mi danno morte, sminuendo le mie pretese. So bene da solo di non poter arrivare a tanto perché di mia debolezza s’è temprato il corpo smorto che è nostro, Catilina. Si detestano gli ultimi, proletariato, e non s’uniscono in frode dei soprusi imposti da chi annega in così tanta aristocrazia da neanche aver facoltà di smaltirla. Io che poi annichilisco in riserva di contraddizione, perché, da umano incerto, mi completo d’arroganza d’ambire proprio all’eterno, io stesso che ostento nel disarmare la ricchezza. Che stupido, ma è ancora più ingenuo chi non dubita. È triste, di complicata sopportazione aver dentro tanto regresso, tanto provarci e mai giungere a capo dell’impero tuo che ami e sostegni anche in difetto. Non giungi al comando, resti in terra, mai al cielo oltre ti sporgi, come fanno e ancora perdureranno chi di te ha da aver vantaggio di tue obbedienze in riguardi loro. Allor ti rimane, Catilina, di compiere congiura in arrecare offesa a chi più di te s’eleva, perché d’invidia si macchia l’anima tua che non attende di ricevere propria luce e allor si piega nello sminuire l’altrui. Tal benevolenza, la tua sola, dato che tuo è il coraggio, è unica. Il caso contrario che rema contro idee, traditori d’una vita che solo t’appartiene, io credo incapace nel porsi in discussione dinanzi alle altre, tutte esistenze, primarie a loro volta, impossibili da condannare né da glorificare. Se tu cerchi, Catilina, quiete, allora questa da te solo va conquistata, perché prosegui a screditare chi, diversamente, non ha visto opporsi su via di sua gioia tutto questo male che t’appartiene? L’armonia va allora forse costruita, poco all’attimo, passo dopo passo, in cerca di salvezza, ma questa, ad essere alleato dei forti, di chi detiene successi agiati in concomitanza con loro predisposizione, è molto da sopportare, Catilina, io lo so. Mai splendi e t’accusano d’essere parassita, inutile pezzo a comporre vuoto. I Dotti lo fanno, ti calunniano dall’alto del loro dire ovazioni al forte per ottener agevoli istanze. Dovrai, di certo, guardarti le spalle sia da chi predica etica, ma rimane sempre uomo ingiusto, sia da chi si culla su propri allori che va incontro agli idi di marzo. Tu, Catilina, sei nel mezzo, mosso a dannarti per non essere nato unico, in possessione di straordinaria capacità da far breccia in ego di chi t’ode, ma io credo che di tua invidia tu ne fai corazza, adotti giustifiche al tuo arrestarti ed essere pronto a disfarti dell’oppressore, di chi contrasta il tuo ambire. Preservarti dall’invidiare. L’opposizione è necessità più d’alleanza, Catilina. Rancore protratto a chi al di sopra coordina la prole, è tale follia. Sol può condurti alla lapide, non migliora tue predisposizioni. Ecco l’invidia tua, pulsazioni singola, superstite, a dialogare con la tua caduta boria che non vede all’orizzonte alcun successo, ma tal tua esistenza è storia, e come tale in sereno va vissuta. Ridi in ostacoli, Catilina, che poi di gloria s’anniderà la tua illusa esistenza. Fingere d’essere in quiete e poi dimenticar di star fingendo. L’invida è verde, malanno di popoli e moltitudine d’uomini che con essa cadono in disuso, s’accasciano morti l’uno con l’altro su pile di carneficine accette.
Ammirare sol desidero chi io sarò un domani.

Il Cicerone denuncia Catilina, noto anche come Cicerone accusa Catilina in Senato.
Cesare Maccari(1880).