Corveria percosse corpo d’Encomio senza ottenere risposta alcuna e continuò a giacere con lui riversa al suolo, ma del diavolo solo il macabro portamento ristagnava in fermo, morto tra spine dell’inattuale.
“E costui era malato di possessione. Ogni mio male era suo godimento ed ora è morto senza rinascere, libero. Tante volte lo aggredì con furia, ora perché non si rialza?”
Passò così la notte e dalla mattina voci sinistre s’affacciarono sulla valle del paese di Tule. Giravano per le strade guardando la cima della collina innevata da cui s’ergeva la villa della famiglia Moravia, sede del loro travaglio, dei supplizi ed amara tortura afflitta.
“Allora è finita?” Era Parenio, dai modi contorti del parlare d’amore, aveva sesso, di quello acido, repellente anche nelle singole sillabe che s’inebriavano del parlare di niente, sol di facciate, apparenza del dirsi diversi, ma che in realtà era eguale, il ragazzo, a tanti volti associati al solo mostrarsi, privi di temi, poveri di spirito.
“È finita se io tal lo decreto.” Ad affiancarlo tra gli sguardi smorti dei cittadini di Tule, s’affannava una creatura del tetro, esile e deforme, coi boccoli neri che si distribuivano a macchia su un cranio ormai esente da ogni forma d’attrattiva.
“Corveria, io la amo, ma ancora di più mi duole abbandonare la mia ricerca priva d’esiti. Come posso lasciarla andare?”
“Anche io so amare.”
“Ed è per questo che fossi tu inviato a torturarli. Per cinque secoli facesti il tuo dovere ad ogni cena consumata nel disprezzo, Parenio.”
Il giovane superbo camminava eretto al cospetto del compagno dalle iridi rosse. Era Encomio certo, i tratti erano suoi, volgarità intrinseca della mole, ma quegli occhi tradivano l’aspettativa, di somiglianza solo si marchiava il suo vissuto. Il capostipite dei Moravia giaceva morto nella camera padronale, quello lì, sotto il cielo della mattina di Tule, era Oimocne, suo fratello del dannato.
“Sarà rivelato il nostro inganno.” Diceva Parenio preoccupato.
“Abbiamo testato il trasferimento delle nostre origini su mente umana. Corveria è folle ora, ceduta totalmente al massacro, non potremo rianimar mio fratello, egli è morto sotto i fendenti di lei. Corveria non vuol più lottare.”
“Allora è così? Gli umani non sono predisposti a rimanere immortali, questi devono vivere e perire giocando lealmente contro la natura loro sinistra. Ora lo sappiamo. Non c’è più speranza per quella donna.”
In passato.
Da quel che viene i ricordi si facevano rarefatti. Si passò ai cinque secoli addietro quando Corveria era erede della nobile famiglia dei Gramont. Aveva già alla ben trent’anni e collocata in alta società giaceva rinchiusa nel maniero, tenuta prigioniera dalla stripe sua perché questa, donna di spessore intellettivo e d’indipendenza sentita, non andava cercando un uomo, ma l’uomo, nel termine singolare del concetto stesso d’essere amata e adorare. Corveria mandava via in rifiuto ogni pretendente d’aristocratiche origini per concentrarsi, in segreto, su quelle sue fameliche voglie di saper controllare la morte.
“Ma questa è perfetta.” Andava dicendo Oimocne al fratello.
Erano due diavoli nell’aspetto e d’umano certo avevano poco, forse metà della loro essenza appena. Erano nati dal diluvio, immortali per il tempo che a loro non doleva nel corpo, ma solo nell’anima. Erano parte d’una specie di confine, tra il divino e l’umano. Una razza d’esseri che camminava di fianco ai mortali in legame col potere primordiale delle origini in tenebra. I due vati giacevano con al seguito Parenio, la cui indole pacata, semplice, di solo adottare l’apparenza, non aveva mutato l’aspetto ad essere visto come demone distruttivo, malato, al modo dei due diavoli. La semplicità intellettiva di quel che si mostrava essere solo un ragazzo, tardivo nelle scelte, lo rendeva uno perfetto succube.
“Quanto tu sei bello, guardati. Che sai amare e vivere.” Lo abbracciava Oimocne dalla sua bruttezza.
“Osserva quanto gaia è quella donna.” Rincuorava Encomio dalla sua brutalità, rivolgendosi a Parenio.
Nella neve, da fuori, i tre osservavano la bella Corveria sezionare i cadaveri che giacevano inermi sul suo tavolo da lavoro. Le mani vellutate sporche del sangue e delle viscere dei suoi lavori su cranio ed intestino. Corveria prendeva corpi appena freddi, consumati e li studiava nei suoi scritti con al seguito la voglia di possedere fine d’esistere.
“È mia.”
“Già tu ti prendesti conoscenza, Oimocne. Sei tu a renderla immortale, sei tu a conoscer scienza occulta dell’eterno. Tuoi sono i segreti della deformità d’apparire. Lascia, almeno, a me il suo corpo.” Lo accusava Encomio.
“Va tu dannato, fratello! Io le prometterò la vita eterna e gliela concederò in cambio del suo cuore.”
“Non andate litigando!” Interruppe Parenio.
Cresceva l’astio tra i due in litigio delle attenzioni della sconosciuta necrofila. La differenza tra i due diavoli accorreva sul lume. Oimocne aveva speso tutta una vita a studiar la dipartita. Credeva di saper come trasferire la propria eternità alle gote del mortale. Era, allora, a lui solo, forse, che spettava d’affascinare Corveria.
“È perfetta. Una donna che ripudia la morte a tal punto da non volerla ospitare in corpo proprio. Vuole essere lei eterna come noi, alieni della creazione.” Andava dicendo Oimocne che con fare barocco imitava le gesta di Corveria nell’estrarre a mani nude fegato ed organi. Parenio ed Encomio ridevano del siparietto di lui, anche se quest’ultimo, in quel tempo, quando ancora il paese di Tule non era che una colonia d’una decina d’individui, andava covando loschi piani contro le aspirazioni erotiche del fratello.
Oimocne, al contrario, era d’un indole così malvagia e depravata da stipulare tutto un disegno di sevizia nei riguardi di Corveria che sarebbe durato per i prossimi cinque secoli.
“Voglio trasferire coscienza alla donna. Originati dal ridisegno d’un essere superiore, non umano, che abitava le antiche terre, rendiamoci noi allora giudici della fine. Doniamo lei la nostra immortalità. Mi farò Dio. Gli uomini mi riempiranno di gloria per esser resi eterni.”
“Abbiamo questo potere?” Parenio si girò verso Encomio.
“Guarda, stolto, che è lui a parlare.” Quello indicò il fratello.
Il ragazzo non sapeva distinguerli.
La seduzione s’avviò presto lì sulla collina.
Oimocne si presentò alla porta di Corveria.
“Quanto tu sei bella, io bramo il tuo cuore.” Gli disse al modo teatrale e quasi ridicolo, ma questa, vedendo la deformità di lui, sempre lo respinse.
Oimocne era deciso a prometterle l’eternità, ma le sue aspirazioni mutarono quando, affascinato dalla bellezza di lei, ebbe timore di deluderla.
“E se non fossi in grado di darle l’eternità che le prometto?”
“Lei m’amerà solo per quel che sono.” Andava Dicendo e cambiando opinione.
“Ti sei rincitrullito, fratello.”
Passarono i mesi, le stagioni ad alternarsi. Corveria di Oimocne non voleva saperne, che aveva sin ben più pretendenti degni, di nobili famiglie e di stirpi onorevoli. Il diavolo era solo uno anonimo deforme che andava adocchiandola per campi. Encomio fiutò la possibilità di spingersi a cedere alla sua mania del possesso che abbiamo visto essere molto accentuata nell’essere demonio. E così proseguì fin quando una notte egli, sostituendosi al fratello, dalla finestra della bella Corveria si riversò dicendo:
“Possiedo io potere di preservare la tua bellezza per così tanto. Sarai immortale per solo il costo del tuo amore.”
Fu quasi per burla, per ischerzo che Encomio, quanto tal ripudiasse così vili azioni per conquistare la donzella, adoperò l’antico disegno del fratello per godere di quelle forme. A dimostrazione fu ciò del fatto, che per quanto superiori nella durata di vita agli uomini, i vati erano soggetti all’inganno e alla perversione degli umani stessi, da questo punto di vista tra i due generi non v’era differenza alcuna.
“C’erano duecento immortali in epoca antica. Erano i vati, nati dalle mani d’un alieno al reale.”
“E ora quanti siete?” Chiedeva Corveria nuda tra le lenzuola affascinata da quell’uomo depravato che però d’umano aveva solo l’aspetto storpio. Il suo fare e il suo dire era di sì terriero, brutale, ma di veduta d’oltre. Encomio, si notava, era venuto in contatto col sapere unico, immane, di quel che svela segreti d’oltretomba e rende potenti i deboli, imperatori la plebe. Corveria ardiva a possedere quella forza, l’eterna giovinezza della pietra, ma la roccia pur dura si sgretola nei millenni e non andava riflettendo sui modi feroci di lui e sul suo aspetto smorto, infermo. Encomio diceva il vero, aveva conosciuto l’immensità, un potere annidato alla terra che però andava oltre e lui non sapeva da dove partire per adoperarlo al contrario di Oimocne, che rifiutato, stava nella caverna della valle a sperimentare tenebre.
“Siamo rimasti in tre.” Rispose Encomio a Corveria e così credeva.
“Mio figlio e mio fratello.”
“Tuo figlio?”
“Mio figlio d’adozione perché è tal stupido che ha conservato la sua giovinezza. Chi non ha lume preserva il corpo, perché la ragione ci rende consapevoli del male del mondo e tal oscurità una volta compresa ci ossessiona, ci deprime e ci deforma.” Encomio fece eco alle sue mostruosità, corrotte dall’immortalità che associata ad un pensiero critico su ogni dolore del creato questo lo storpia. Corveria lo strinse a sé.
“A me non importa del tuo apparire, mio diavolo.”
“Certo, tuo brami potere.”
Corveria sorrise e gli baciò le labbra screpolate tornando ad avvinghiarsi a lui nel letto scompigliato. E poi fecero l’amore su corpi morti, due, tre, quattro volte. Corveria, finalmente, aveva forse ritrovato l’uomo che ella desiderava da sempre, potente nella conoscenza, di prospettiva futura alla dannazione. Così nuda gli andava dicendo:
“Quando mi renderai eterna?”
Lo ripeteva sempre al ridosso della cena ed Encomio fuggiva dalla discussione.
La nobile casa dei Gramont, saputo l’intrigo amoroso della primogenita che ormai era donna formata, ne fu acquietata. Corveria tornò a respirare ed ogni notte si faceva sempre più insistente facendo domande all’amato su morte e vita. Encomio, però, era di carattere brutale, selvaggio, marginale, filosofeggiava sulla sua visione.
Non la ripudiava a quel tempo, anzi forse ne era innamorato a tal punto da dimenticarsi dell’astio contro suo fratello.
D’improvviso, però, un giorno Encomio andò fuoriuscendo dalla caverna.
“Ora dove tu vai?” Gli chiese Oimocne che aveva già iniziato a rapire giovani briganti e a farli morire tra immorali torture per placare la rabbia sua, causa del rifiuto di Corveria. Oimocne doveva essere sicuro d’essere in grado di trasferire l’eterno, allora iniziava a testare, di sangue e viscere s’imbrattavano le pareti di pietra.
“In giro dai diavoli.” Gli rispose Encomio.
“Siamo noi i diavoli.”
“Tss.” Con una smorfia Encomio uscì dalla valle in direzione della tenuta dei Gramont, senza sospettare che Oimocne usasse carri sottratti ai senza meta per seguirlo attraverso i sentieri scoscesi delle intrecciate colline. Così, arrivando dinanzi alla villa, s’accorse egli dell’inganno.
“Tu sia maledetto, d’un diavolo fratello!”
Corveria afferrò Encomio per le spalle e lo trascinò in camera da letto. Oimocne era rintanato nella vegetazione per veder consumare il misfatto.
Fu in quel periodo che egli diede vita al loop.
Encomio, di ritorno alla caverna, fu sorpreso dall’odio riverso che lo accolse.
“Lei crede che tu sia me.” Cominciò Oimocne.
“In effetti siete simili.” Disse Parenio.
“Taci!” Tuonarono i due.
“Lei vuole l’eterno. Tu gliel’hai promesso, gli hai svelato d’essere un mezzo uomo, scommetto, diavolo.”
“Le ho mostrato i testi degli antichi dove si narrano le origini della nostra specie.”
“E lei c’ha creduto? T’ha dato il suo cuore?”
“È fede la sua. Inebriata dal potere, non vede oltre il suo naso. Per avere vita eterna è disposta a tutto. È perversa.”
Oimocne crollò al suolo della grotta. I pipistrelli tutti fuggirono spaventati dal tonfo, mischiando i detriti loro ai cadaveri sezionati. L’aveva perduta.
“Andiamo, fratello, lei non t’amerebbe se non fosse cieca d’ambizione.”
“Certo, allor le hai promesso d’avere le mie conoscenze, godendo però tu solo del suo sesso.”
“Dalle quello che vuole e io ti sarò riconoscente, Oimocne. Smetterò d’oppormi a te. Rendila eterna, conduci i tuoi esperimenti, dimostra se l’essere umano può diventare eterno ed io, intanto, mi terrò al caldo stretto al corpo della bella Corveria. Magari i miei geni da vate, intrecciati ai suoi di donna, potrebbero dar vita ad un essere giusto.”
“No, i vati si sono uniti solo tra loro stessi, nessuna riproduzione con l’uomo è tollerata.”
“Rendila possibile. Sei la miglior mente della nostra stirpe.”
“No!” Gridò Oimocne.
Si fece silenzio. Si rivolsero le spalle.
“Andrò a vivere con lei per sempre, porterò con me Parenio, lo farò figlio mio.” Disse Encomio rompendo la quiete.
Oimocne si fermò a riflettere, guardò il giovane illuso, Parenio, che s’agitava senza comprendere il senso della sua condotta. Sulle rocce c’erano cinque cadaveri storpiati, adoperati per conoscere segreti della dipartita. Andò a disegnarsi sul viso vecchio d’uno dei due diavoli, quello dagli occhi rossi, possedente i misteri dell’occulto, un sorriso sinistro, di scherno alla vita stessa. In un attimo solo, Oimocne seppe cosa fare, come punire soprusi subiti ed avanzare nella ricerca sua.
“E sia.” Iniziò a dire cercando di celare la contentezza.
Allungò la mano ossuta in direzione del fratello.
“Vivrai con Corveria. Avrà lei vita eterna. Parenio diverrà vostro figlio ed ogni cinque anni generete altra prole da seviziare per i miei esperimenti. Tutti avranno ciò che desiderano.”
Oimocne espanse i criteri del contratto tendendo il braccio al fratello Encomio. I due erano impossibili da distinguere nell’aspetto, se tal non era per le iridi.
“Questo è un patto, fratello.” Disse Encomio contento stringendogli la mano.
“Ora toglimi questo stupido davanti agli occhi!”
“Andiamo, Parenio, ti porto nella tua nuova casa.” Encomio lo trasse per sé e se lo portò via.
Ed ecco fu fatto l’incantesimo.
Oimocne non accennò nulla sui servitori delle loro cene, su ogni figlio di loro nato morto, sulla tortura dei discorsi di Parenio. Proprio i servitori erano i cadaveri dei senza meta che Oimocne rapiva e che riusciva a rimettere alla vita per poche ore da servire l’avariata cena. Aveva già dato egli istruzione a Parenio.
“Sarete voi la famiglia Moravia.”
Encomio non s’interrogò mai sui suoi sentimenti riversi a Corveria. Non sapeva se l’amasse né se volesse sol del suo corpo godere. Fatto sta, che La tenuta dei Gramont divenne la loro prigione. La casata s’estinse in fretta, mentre i due sposi, in tormento, non andavano mai invecchiando. Encomio e Corveria rimasero soli a commiserarsi nel loro dolore. Oimocne stregò la villa con l’antica forza della stirpe. Encomio, vincolato all’amore per Corveria, sviluppò odio morboso per quelle forme che tanto lo fecero lieto. L’eternità che spezza anche il bello d’essere vivi perché protratto fino all’estrema l’esistenza non è tale. La forza della magia si reggeva sulla predisposizione di Corveria a desiderare l’eterno, quando questa avrebbe perduta l’ambizione, sarebbe stata libera di perire. Il paese di Tule, invece, s’accrebbe in disprezzo di quella famiglia inferma, condannata, che abitava la cima della collina e seppelliva cento figli. Corveria accettò l’eternità senza aspettarsi quale dolore essa le potesse impartire in crudeltà sadica, perché tale vivere è punizione, essere perpetui è condanna feroce.
I vati stessi, com’era Encomio, non morivano col tempo, ma perivano se aggrediti in violenza e sangue ed è ciò che cinque secoli dopo successe a lui che morì sotto tortura impartita dal fratello, per mano proprio della donna le cui premure lo facevano succube.
Il presente
Lasciamo Corveria a ridere nella follia in cui cadde senza ritorno.
“Con la morte di Encomio, l’incantesimo è spezzato. Corveria ha smesso di desiderare di comprendere morte, vuol sol ora possederla, resasi parte del paradosso. Encomio non può rialzarsi adesso, la sua amata, per quanto sempre andava a dire di voler perire per libertà, di quella salvezza aveva timore. Ora è folle, la paura è sovrastata dalla pazzia. Il loop è disgregato.”
Diceva Oimocne a Parenio lì a calpestare la neve, sul sentiero che da Tule s’immergeva in ignote foreste per giungere alla civiltà di Naeride.
“Adesso Corveria è ridivenuta mortale?” Chiese il ragazzo.
“Sì, ore lei ha scelta.”
Così Corveria si tolse la vita trafiggendosi con la stessa lama con cui aveva assalito Encomio, lo stesso che in passato gli rivelò della condanna impartitagli da Oimocne. Il cerchio andava a chiudersi.
Che commedia è la vita che è resa eterna, tra la quiete risiede la fine, tra le incomprensioni c’è il grottesco dell’etica, quella brutale della non rivalsa.
Corveria, folle, scelse, finalmente, d’essere libera. Non ebbe più paura di gemere e soccombere. Tra i suoi sbagli spirò.
L’eternità è una condanna.
Non c’è gloria nel tetro del mio reale.
FINE

Incubo o L’incubo (The Nightmare) (1,02 m x 1,27 m) di Johann Heinrich Füssli (1781)