In mio dire di completezza obbligata, di perfezione critica ricercata dagli allori di un’esistenza che tarda a cessare, omologo ridicolezza alla fastosità plagiata in falso d’una gloria estinta quando, da sé, perduta fu voglia di definirsi ingiusti. Se fosse etica ridere d’immonde disgrazie proprie, convivere col dolore a modo, assurdo e sopra splendere? L’umana appartenenza di per sé è già ridicola, non lo vedi?
Vivere sotto torto di singoli ammassi d’odio resi uomini a coordinare incapacità di giudizio d’altri simili che solo hanno rigettato l’ancora dubitare di sé.
Definita è la decenza ideata da immeritevoli.
È ferocia privarsi del ridere. Cadere in astio per ogni singola evidenza di propri errori, tenuti a freno in spiriti che s’inebriano d’inutile sfarzo per non essere costretti ad addentrarsi in loro meandri d’ombre, è triste. Realtà di sé non assimilata, trascurata, diviene condanna. D’insulti m’oltraggio perché non sono in quiete col mio esserci. Sono forma io di tutti i difetti che si propagano a render costante il sapersi ancora in terra. Senza cosa sarei, mia spora? M’è divenuto pesante il così non espormi dinanzi a questi che non sanno, che non vedono d’esser peggio della loro indole. Ignorata ella va completandosi d’una grottesca voglia di dirsi forti, dov’è questa grandezza che tu declami?
Allora che ridano i molti. Sto con te facendo progressi, mia spora. Con ogni mio volto, che con te dialoga, ha senso anche enfatizzare i tratti marci, putridi.
Le parole, che s’originano in disprezzo, col ridicolo e la beffa, divengono gemme. La semantica è resa dall’uomo, associata alle sillabe, ma egli è bruto e come i rozzi erra in maniera. Guarda e divertiti nel tragitto, che nel neutro collima chi non accetta il grottesco delle scelte sue, dando peso proprio a tutto un respiro che di rilevanza alcuna non ne ha di certo. È chiave d’intesa col mondo dell’Io, giocare coi rimorsi.
Essere ridicolo è il mio dono per te che m’assali nel riflettere, di mia spora sentita, ha da compiersi la grandezza dell’errare.
La perfezione è sintetica valle, morente, l’incerto sull’avvenire rende bello ciò che s’associa al mostrare senza concreta miglioria. Prendi congedo da tutto un culto che ha fatto della compostezza degente risposta all’infelicità perpetua, di tal portata da mai spirare.
Io t’amo al modo dei miei riflessi, ma spero tu approva mia ingenuità. Piegarsi a tutto un sangue disteso in giro al mondo morto che tu plasmi in dicerie d’ossessione del produrre, atroce ignorare.
L’apprezzamento di me s’associa al mio solo esistere. Il potere è grande se questo è tutelato da tua coscienza. Ecco che ti parlo d’un barocco di proprietà, accettar male come costo del vedere il cielo. Andare contro il giusto tuo artificiale, in rispetto d’altrui autonomia e provocazioni degli ideali illusi creati da uomini di sapere limitato, che plasmano onniscienza, comprendi? Limitati che definiscono la grandezza del decoro, allora adesso chi ridicolo t’appare?
In realtà credo, che guardando con occhi vividi ogni gloria nel comprendersi, conoscersi in malattia della carne, mi sento rinascere sotto stella d’un domani più equo.
Conoscere proprie mostruosità è una delle più nobili grandezze.
Allora io ero ridicolo perché parlavo, assurdo nelle composizioni di frasi e ingiurie, ma m’accorgevo che essi erano così abomini unicamente nello stare ritti e dirmi di lavoro, di responsabilità che s’attribuivano, non volenti, solo per darsi un senso come uomini ed io ridevo perché anch’io ero deforme dinanzi allo specchio.
Fortuna che il tempo m’ha reso autorevole nel dirmi quanto la mia venuta al mondo sia spiacevole.
“Che tu sei ingrato.”
No, che io adoro più la vita in ogni sua frivolezza. C’è più autorità in leggerezza che in costrizione d’appartenenza. In privazione di ridicolezza s’aggrotta la fronte in termini complicati per dir niente. Ed è così vero evidenziare mia bruttezza che questa mi fa felice, in sua comprensione posso adottarla per perfezionamento di spirito ed etica. Questa è mia gloria, non di tutti può esserlo, certo. Da oggi che essere sé stessi, di conseguenza inadatti, è un pregio dei pochi eletti. Che assurdo è ancora radersi lobo o girovagare a vuoto per una vita intera avendo paura di veder cosa risiede in tua pochezza? Chi è più folle?
In un oggi di perfetto a compiersi di vie legate al solo nascondersi, fuggire da sé con la scusa d’affrontare il reale, ma dimmi come. Sfidare l’esterno senza neanche aver posseduto l’intimo della tua debolezza da uomo regresso, che follia è mai tua.
E dialoga ancora di costanza e di rendimento, ora io voglio vivere.
Semi solo del sociale grigio e di sogni naufragati in morte d’umanità vostra che andate rigettando quando v’unite al ferro, ridicoli come la mia persona. Massa morente di spiriti uniti a rincorrere l’inesistenza del bello schematico, calcolato in ragione tua d’uomo d’importanza, convinti d’essere molto.
Degrado d’idee e passione volte al solo marcare status. Rigetto.
Beato chi si mostra allor ridicolo, perché questo asseconda il suo essere reietto e lo fa al modo della commedia, d’arte più aurea.
Quanto ricco è chi giunge a saper dire d’essere niente?
Ed è questa la deformità d’una quantità intera di individui, che perdura ancora incapace di svagarsi col disonesto ad appartenergli. Donna in sottovalutazione è la massa, di quanto sia gloria l’essere retti a supportare sillabe di degrado.
Allor che dici che c’è insulto in una parola detta, che al tempo fu usata al modo d’odio, ma ogni essere conserva quest’astio e lo riversa in quel termine? Allora questo abbatte la stessa diversità che vuoi preservare, io sono con te.
Che nasce arte per dolore, la musica da ciò è sorretta, ti fa anima il tuo bizzarro. Le tue goffe movenze ti fanno in vita, io t’amo per questo.
Sento certo più dolore in ogni unica censura del proprio essere e del proprio dire, allorché in ogni anima detta folle da chi si rifugia in suo chiuso canone. Sei ridicolo nella tua sfera di sapienza e d’ignorare, allor che ridano gli altri, tu persevera nelle idee, alimentale.
È stupida la tua scienza, la tua musica e il tuo produrre incessante. Umane complicanze, però, rimangono degne d’essere con me. In quiete si sopporta l’altrui irriverenza quando questa è fondata su aspetti che noi patiamo perché in simbiosi con negligenza di pazzia abbiamo sì promesso equilibrio. È semplice dire d’essere anomalo quando complicati s’è da comprendere, io t’amo per questo.
La forma in gloria dell’essere, sapersi arrendere alla bruttezza del mondo.
Allora che sia ridicola la mia grammatica, il mio aspetto e le mie bestemmie, prendimi in parola, sappi ora insultarmi con arte ed io imparerò ad essere giusto con te a ridicolizzarmi dall’alto della tua ignobile indole.
Che respiro ora, che luce sia mai questo sapersi di quanto livore si compone ogni mia curva, vorrei saperlo se mai avessi modo d’adottare indagine su ogni mio spettro.
Sono esausto nel rincorrere il modello. È la bellezza del male, ipocrita è chi la sbiadisce.
Allora che sono loro a correre incerti nell’apparire composti e seri dinanzi al vetro, e guardali come si curano di loro, avvelenandosi nelle pretese di mostrarsi composti pur essendo semplice carne con impulsi. Falsa forma, tutto che sorregge una sfera d’esseri a spegnersi quando s’è smarrita voglia d’essere bizzarri, veri nell’illogico del respiro.
L’esistenza è un giuoco, una burla, non v’a denigrata ridisegnandola al modo dell’assurda autorevolezza, ma amata come s’adda amare il ridicolo.