1. Locusta, giunse veleno tra i palazzi di Roma Augustea

V’era in Gallia, ai tempi di Tiberio, una bambina dai natali in segno d’intima violenza legata alle origini. Storie d’italici conquistatori fomentarono il ridisegno volto alla perversione d’una delle menti più congenite al veleno mai vedute in epoca d’antico umano livore. La bambina crebbe per foreste d’ombre vissute. Dalle piante ricavò affetti, dal legno degli arbusti protezione alle ingiurie. Terra feroce per lei in un corpo di minuta compostezza. Il cielo fu d’impossibile arrivo, la terra produsse all’odio dominato arbitrio. Ed ella fruiva di macabro immaginario. In ciotole di legname poneva miscuglio d’un nero liquame.
“Che potrà mai ambir tanto di questo liquido pressato in umana carne?”
Per la prima si somministrò, autonoma, l’ignoto della natura madre. S’ammalò, cadde, non gli fu però mortale ancor tentare. Iniziò a farne di pericolosi, affinando tecniche di dubbie conclusioni. Eran liquidi d’ogni sorta, spezie ingorde, s’ebbero tossine.
“Su per le pendici ne troverò di simili.”
Dacché la fanciulla ebbe udito dai dotti del suo popolo che, con la legione decima Germina, l’impero d’Augusto massacrò loro.
“Perché fann questo?”
“Per unire l’intero degli esseri ad una natura, loro madre, malevole.”
“E se s’usa tal natura per rendere loro male di vita?”
“Tu, piccola, sei spiacevole.”
Continuò a provarci, ingerendo ogni unguento. Il cuore una sera gli s’arrestò per un sol momento. Il corpo paralizzato per due lune appena e poi ancora si rigettò al suolo esamine. Grigia, un pomeriggio, si fece la sua carne.
Migliorò poi in fatalità, vedendo quanta rovina potesse ricavarsi dal verde, tanto almeno quanto dagli eserciti che andavano bussando alla porta minacciando sanzioni. Atrocità della sola avvisaglia però non sterminavan famiglie, eran grida di niente, Cesare era lontano. Non, però, a lei bastava giacer al suolo ogni dì. Dall’erbe fece veleni e dai veleni s’ammalò d’occulta ricchezza. All’appena fanciulla fu data forza d’illudere malanni, al seguito poi, però, di procurar esiziali danni. Si ritrovò ad essere giudice d’un dominio inarrivabile. Si suoi piedi strisciavan serpi ed ella stette per intossicarle abili.
E perivano gli insetti, i cani infausti, perivan le stesse piante, sul corpo suo lividi insani, allor che si promise d’espandere la sua morte ai romani.
“Andrò incontro al mio volere.” Diceva innocua, ma con tanto nelle mani in sé credere.
Di che poco ella venne su inebriata dagli aromi della cucina martire, suo rifugio in mondo contratto. In realtà dico, che sol tal sparso sangue poteva sì corrompere anima tanto gentile come la bell’indole di cui s’adda compatire l’ambizione. Una scalata, ad addentrarsi tra le corrotte gerarchie. Amata fu dalle donne, prime imperatrici in ignoto, liquidi in corrosione di corpo e prima ancor di coraggio. Lei, di cui il nome s’adda ritrovare in archivi da polvere gremita di divi rimpianti, magari lì dispersi a Capri da dove la paranoia d’egli che fu primo uomo dello stato si faceva pressante in un cuore che già mal sopportava inventiva. Tiberio moriva accecato dal suo male, ed ella lasciava la Gallia in cerca d’allori, andando in direzione dell’antico Pomerio, patria dell’equo impero, massacratore di popoli. Il sole spendeva in un cielo tinto d’azzurro agio, però, era d’un lugubre presagio, che i volatili andavano a posarsi sui rami secchi degli arbusti a squadrar le due magre figure avanzare smorte. Il suo cammino iniziò proprio lì dove s’era compiuta del sociale la sorte, con la forza d’unire tribù sotto il ferro dei legionari.
“Ben che credo che un uomo possa farsi Dio.”
“Ed allora l’Ara pacis non giunge a noi dagli Eoni?”
“Augusto era sol carne e come tale, dal reale, in tempo precario, fu mandato per l’ignota via.”
“Dopo quanto d’illustra malattia?”
“Dopo tanto che basta a un giusto per darsi modo di divenir cenere.”
“Lo credevi tale?”
“Figlio d’un odio brutale, come lo fu il bel Cesare della Roma unita, suo padre.”
“Ma son passate sotto il suo comando sante ere.”
“Veneri tali essere abomini della sorte.”
“Tu che allora intendi rimediare alle loro colpe?”
“Intendo solo farmi io vuoto di morte. Guadagnare in illusioni ed erbe inferme. Essere giudice dell’alto delle cariche, gelo di notte a dirgli d’essere il buio dei loro infanti, dei loro dubbi, dei loro martiri.”
Parlarono quando in cammino dal nord dei Campi Raudi, teatro di sterminio dei Cimbri un secolo addietro, stavano alternando passi calpestando corpi fusi ad arcaiche pietre in rilevo. Poi per le Alpi oltrepassarono il Rubicone. Accompagnata dalla fedele Gaia Silla, d’estinta casata in vanto delle illustri imprese africane, si scuoteva di tanto in tanto. Il cotone a ricoprire gli unguenti che andava portandosi dietro. Partiva con le più nefaste delle credenze, con le più ignobili delle accortezze. Se tal oppressori possono generar morte camuffando stermini con disegni di gloria, dacché l’impero divenni solida storia, allora lei, che d’odio e cieco amor per l’argento viveva, di diritto il richiamo della sterminata aristocrazia avvertiva. Le due, su fluenti incesti, proseguivano in direzione sud d’Aquileia.
“Il tuo nome di Gallia è infimo.” Condannò Gaia.
“Qual nome d’uomo non lo è in suo intimo?”
“Devi altro cercare tra dispersioni del tuo rancore.”
“Perché credi che son io anima rivolta alla vendetta?”
“Ti guardo negli occhi, mia accompagnatrice, verso devastazione di civiltà. Tu Roma la vuoi vedere inebriata di morte, sangue per vie e rosso tra le pareti dei mausolei.”
In latino dialogavano assorte lì dove l’erba si definiva ancor nera dal fuoco disperso dalle vecchie schiere. Gaia arrestò lei in un abbraccio di pietà informe.
“Non ho astio contro l’impero.”
“E cosa credi allora di ritrovare almeno?”
“Ingannare i folli è remunerativo.”
“Chi son, per te, folli?”
“Figli di sorelle, di prossimi parenti. Una stirpe di dannati possiede il trono. Follia nei loro ornamenti, ma io voglio sol l’alloro.”
“È la nobile gente di cui tu parli? D’Augusto vuoi farti beffe, lui invia a te e ai tuoi, cruenti torture. Maledetta te d’essere tale. Poco più che una donna, pretendi d’avere ai tuoi piedi il regno dei grandi.”
“Allora cosa cerchi, Gaia? Con te solo sono al seguito per un posto al Palatino. Or tu di me hai rimpianti?”
La nobildonna romana si fermò rigirandosi. Perché la portava al suo seguito?
“T’ho promesso d’inserirti in società. Tu, però, obbedisci al mio grido, alla fu nobile romana onestà.” Le ordinò.
“Sì certo, son corpo a te ligio.”
Fece per proseguire, ma ancora Gaia la trattenne.
“Come tu ti farai denominar, lì che al sol errore alla terra giungi storpiata.”
Quella cercò di divincolarsi. Gaia, dall’ira si fece irruenta.
“Clemenza tu a me, per via a Roma, dimostra.”
“Allor, sarò Locusta.”
A Gaia bastò poco che lasciò la bella dalla ferrea presa. Con al suo seguito ella giaceva, tal che la sua anima di pena sincera stava distratta. La bimba, che ora era quasi donna formata in completo era, lontana dalle colline della sua infanzia, per lei, matrona, appariva come sol vittima del suo credo. Gaia non dava tanta importanza ai suoi disegni sanguinari, innocua appariva la sua pari. I suoi liquidi erano dissetanti, non mortali. Certo era che Locusta, d’ingegno, non le aveva mai dato dimostranza delle sue tossine, ebbe ritegno. Gaia allor credeva che portando con sé la fanciulla, crescendola a palazzo, avrebbe posto basi d’acquietar tutte le pene di quei massacri. Li sentiva in coscienza, le grida che Cesare sradicò violento dalla gola dei gallici. Insomma, salvava da certo eccidio, una bimba tanto vivida, con quei suoi occhi d’abbagli, colmi di speranza riversa al domani. Gaia era sicura che mai alcun danno poteva espandersi da labbra tante rossastre, temprate liete da tenui dimostranze.
“Tu, Locusta, so che hai odio per noi. Roma s’è macchiata d’aver molestato la tua patria.”
“Ancor che vai ripetendo, Gaia, mi rendi pesante l’amar aria.” Le disse tediata, dacché la donna capì d’essere di troppo.
“Voglio dar peso alla mia sostanza. Sol a Roma, con costanza, troverò ristoro. Permettimi di seguirti a palazzo.” Pregò Locusta.
Gaia si fece assorta in suoi ossequi alla bella rivolti.
Allor ripresero la marcia.
Molti anni passarono tra i confini, a loro s’unì il corpo di guardia della gentildonna, scortandole fino al centro, dove sarebbe un giorno sorto lo sfarzo brutale della Domus Aurea.
Locusta, veleno a Roma, ora era alle sue porte. Nella città di Tiberio sol che vide era il caos. Morto l’imperatore chi gli sarebbe succeduto in sorte?

Lucusta, nota anche come Locusta (Gallia, … – Roma, 9 gennaio 69), fu una delle prime avvelenatrici seriali della storia. (Wikipedia)

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