Locusta s’erse come mistero plurimo. Un’ombra fu, mezzo d’acuti delitti al potere coinciso, dedita all’unica devastazione che il suo aver beffe del governo d’uomini portò tra le colonne dei palazzi, tra troni d’oro del senato incerto, finché fu a dirsi predisposta nell’espandere veleno tra mordace pretura. Vide molti dei pezzi di sesterzi, raffigurazione di sigle come la sc poste sui bronzi, dell’usura il contenimento, ed ancora il passato rinnovo del Tempio della Concordia e dei Dioscuri. Statue colossali degli Augustales le fecer disgusto.
“La sola res publica è degli uomini, non dei miti. Essi son viziosi, immorali, anime fetide della terra a cui condanno, impropria, mancanza d’inventiva. Dovrò io occuparmi di loro, indegni certi d’un mondo sadico, ed io credo ancora nella totalità della natura a porsi al di sopra d’ogni carne. Loro, a spargere sangue lì ad Alesia, poi a preservare il seggio dagli attacchi mediatici di Seiano. Io, invece, vado massacrando a palazzo, lì che i miei veleni nel silenzio estirperanno anime da colpi ingrati nel farsi fruitori d’idee.”
Pensava Locusta, eppur che lei della giusta sentenza poco s’interessava, non comprendendo, che stando mascherando complotti sotto il velo del social riscatto, compiva, di fatto, lo stesso che l’impero nascondeva il funesto dell’oppressione col segno d’un disegno unificatore dei popoli liberi.
“Son confusa, non so cosa più mi diletta, se far parte di loro o distruggerli. Il mio spirito scisso in ignobili sotterfugi, van chiedendo cosa sono, cosa sento, ma in verità esisto se persevero nel lamento. Vedrò, allora, cosa ancor m’acquieta, se ricca son libera dai rimorsi dell’esser stata debole dinanzi alla Gallia in sterminio. Se in trionfo portata al vertice, io potrò perdonare l’impero?”
I dubbi suoi in riflessione del nobile, ma tal era che quella egemonia sociale ancor Locusta non l’aveva, eppure già che andava chiedendosi con qual mezzi gestirla. Conosceva potenziale delle sue tossine.
Insomma, il male è tale che in ogni nobile intento s’insinua, mutava sol il tramite.
Locusta si sistemò sotto la protezione d’un giusto edificio imperiale, si diceva che da lì Cleopatra andasse adulando Cesare. Lo stesso rifugio adottato da Marco Antonio prima che raggiungesse la regina ad Antiorchia per aver la sua mano.
Fu il quaranta, l’anno folle da che sul Palatino Gaia presentò la sua compagna alle ancelle. Locusta fece quel che poté, fu servizievole, armoniosa nei modi e nel fare. Al cielo, mentre gli affreschi del suolo andav sfregando con stracci, diceva:
“Celo la mia natura amara, d’irrispettosità alla corte per meglio qui infierire in vita agiata, però io sono della plebe e d’essa m’alimento.”
Si piegava ai nobili, cospargendosi di glorie, stringendosi nello sforzo di non udir, della Gallia martoriata, storie. Stava contraendo il suo cuore ad adulare il nemico, forse, ma quel che era avverso più d’ogni romano in vista, a lei fu il confuso delle sue gesta. Comunque, non mancò agli impegni imposti. Infatti, Locusta, per quegli anni, fu la bella, accolta a palazzo dei grandi. Da lì a poco, da tutti fu benvoluta, ma in Locusta si fece pressante l’ambir dissacrante dei grandi sfarzi. Il suo malanno mutò mordente.
“Sorrisi beffardi dinanzi ai giovini pargoli d’impero. Non ero io costei in Gallia, pronta a servir chi m’ha offeso.” Rifletteva, ma intanto curava i bisogni degli eredi, li faceva suoi fedeli, accomodandosi favori.
“Dei miei affari abbi tu cura.” E Gaia andò assegnandoli commissioni da fare in città, d’un segreto incustodito dal cielo, in contrasto con l’Appia scura.
Lasciava il lusso, per l’illuso del quotidiano.
Il popolo tra le piazze era risentito, sì che s’animava del gran lusso insensato e dei giochi ambiti, così grandiosi da far incespicar Locusta lì dispersa nella folla ad attendere il mercato.
Non sapeva ella che fu Roma santa, ma dei massacri. Volle, però, andar per le strade.
“Scusi, uomo, chi or che comanda?” Chiese ad un essere, come quell’anno, sulla quaranta.
“Ora il folle, il tremendo, figlio di germano, toglie a noi grano.”
“Oh, l’impero è nella tirannide.”
“Or l’impero è nel sangue.”
E questo si allontanò al suono dell’armonica seduzione. Suonavano in tutto. L’arte ingombrava sulla logica dell’amministrazione. Locusta era tanto pia nei modi, i capelli di seta andavano lunghi fino a coprirle le curve ambite.
Giovane Ebe aveva tutta la luce delle contese.
“Piccolo stivaletto di soldato?”
“Chi da te, ragazzo, è cantato?”
Sì che poco, il nuovo giunto, aveva un decennio d’età, appena.
“Ed egli che ama i culti d’Oriente.” Disse il bambino, ma all’improvviso, si fece grave una figura forzuta, di donna ben posta.
“Or t’ho detto di non andar a dialogare con la gente.” Lo sgridò, era la madre.
“Non ardeva a far male.” Disse Locusta.
“Tu va a casa donna, che la Tirannide qui incombe.”
“Ma chi è alla corte?”
“L’imperator Caligola.”
Tiberio allora aveva fatto dar trono all’eroe delle sue guerre.
“Le casse del Senato sono esigue. Egli le ha estinte, sperperando i danari, si perdono al lusso delle bighe.”
Roma era sede di pazzie.
C’era n’altro che stava ritto sui cassoni a predicare alla morte ovazioni.
“Scusa, ma se Caligola di voi era il pargolo.” Chiedeva Locusta.
“Non più da quando s’è visto allo sfarzo.”
“Che tu, dici, vecchio? Seppur violento ha che Mauritania fatto bottino.” Intervenne una donna, che tal vedendo gli abiti illustri di cui s’ornava Locusta spense l’iniziativa di farsi d’ira dinanzi a lei, signora di palazzo ai suoi occhi illusi, già a porgerle le più sincere promesse, rispetto dogmatico annesso.
“A che prezzo, certo, che dovette egli conquistarla per stessa offesa da lui arrecata.”
“Augusto non voleva però espandersi.”
“Certo, un po’ folle è l’imperatore.”
“Incesti con le sue sorelle a tavola s’arreca.”
“Ora difendi il Tiranno?”
E quello cominciò a tirar sassi.
“Oh, mi spiace per i bruschi modi, signora.” Le disse l’ignota.
Locusta allora s’allontanò con un cenno di sgomento, ma appena distante si fece fredda repulsione e sorrise di compiacimento.
“Quanto sarà facile farmi spazio tra la pazzia ingrata.” Disse.
Gaia la mandò a intercedere per lei tra i signori dell’impero, suoi congiunti, amanti, clienti. Dacché il suo compenso fu tanto generoso da ottener, in qualche anno, ospitata in una bottega sua incisa, tutti gli scaffali colmi dei suoi veleni in vista. Dal nulla ricavò le prime entrate, le sue medicine imperversarono per le strade. Un emporio di tossine andò a sedimentarsi ai malanni dei romani. Sopra al colle Palatino stava a contemplarli dall’alto, difesa dalla condotta del popolo, troppo distratto per vedere quali minerali andavano girando tra loro. L’emporio era piccolo, ma efficace nei modi. Locusta lo adornò di piccole statuette ad imitazione dell’ellenico di Rodi, ed ancora a simboleggiar la fedel sua stima nei confronti degli uccisori di popoli da metter busti in rotazione negli angoli tetri, celati dalle ombre dei primi affronti all’aristocrazia, ma furon accuse blande, vaghe, non poteva gettar al vento tanto sforzo. Le mensole eran di legno, curate nei dettagli, i quali si rifacevano ad evidenziar la merce con decorazioni a rappresentanza di sacri infanti, dei divini astrusi. Mercurio, difensore del commercio, diede atto alla bella di dirsi benedetta dall’afflusso dei cittadini. Essi non badavan alla sua origine aldilà d’Alpi, che i mariti, pretori, commercianti, sarti, accompagnavano le mogli a far compere nel nuovo dell’ignoto. Tra l’elisir porpora, s’affannavano interdetti, insulti tra le file andavano detti, ma fu che tal era l’arcaico ed i pregiudizi del non compreso pur sempre s’annidavano feroci. C’erano mesi di magra, ma Locusta sopportò ancor le spese al seguito dei comandi di Gaia. Ella col suo seguito visitò l’emporio, investì in opere ed imposte. Locusta ritrovò tante nobili, sue alleate, a comprar mobilio da dar a lei in dono, e quella prosperò nella contentezza di veder vendite.
“Or lor che vedono sol l’elisir della clemenza, non sanno che in retro, alla credenza, io ho tossine.”
La sua benevolenza mostrata in facciata. Le ombre del ventre, mischiate all’indole, premevano d’uscire, di permetterle d’essere l’avvelenatrice qual era.
Ricompensata nella perseveranza, divenne astro e di guarigione speranza. I bronzi andavano consumandosi rapidi. In poco, grazie alla diffusa parola in città, entravano clienti d’ogni sorta a domandar santità.
“Mio marito sta male, d’erbe necessita.”
“La carne del mio bambino al sole s’irrita.” Dicevano.
“La medicina da poco reddito, se tal l’impero va smembrato, di cosparger veleno dovrò tentare.” La bottega di lei era un via vai di semplici individui, almen che prima dovette farsi conoscer dai nobili primi. Proseguì e stette lì quieta a curar infermi sorridendo di malvoglia.
“Ingoia questo livore.”
E spargeva unguenti su tagli che andavano ricuciti, mandandoli dai medici ambiti, lor anche si facevan clienti, non tanto quanto, però, le donne influenti. Il sesso di prevalenza era quel che di femmina s’aveva da mostrare, e le curve liete incespicavano tra le tavole malmesse.
“Il vero argento sta nel male, ma per attingerne, a curar infanti dovrò, per un po’, restare.”
Passati furono anni dal quaranta. Entrava il nuovo dell’amministrazione sconosciuta. Locusta creava alla luce del giorno affari sentiti con cui navigava ora una discreta somma di ricchezza d’infinito senso.
“Morto è il tiranno. La res pubblica vivrà.”
Certo che Caligola fu storpiato in malo modo e nessuno pianse il suo massacro. Successe suo zio Claudio all’impero. Intanto l’emporio di fama e prestigio s’arricchiva.
Gaia non la vide più tra le mura di casa sua. Impura, di sera Locusta stava a promettersi di tentare. Immaginava il sangue crollare abbondando dalle loro maschere d’uccisori.
“Dannati romani! Dar fede, con unguenti miei cariati, al loro esercito.”
Il fatto era che Locusta aveva con le tossine un perverso rapporto, complesso negli eccessi, si coricava abbracciando il vetro dei nuovi nobili contenitori. Molte volte stava ore a guardar le bolle formarsi e tingersi d’ogni sfumatura, il suo viso a deformarsi in tiratura febbrile causata dalle sostanze che continuava ad assumere su di sé per sempre star a vedere quanto male potesse trarre dalle sue mani.
“Guarda questi arti, son di carne come di chi mi privò di gioia, assediando le mie pietre. Eppure, in ombra sanno dar morte quanto il ferro sa stridere in riflesso del giorno. Che poter è mai tale? Chi asseconda l’altro, chi sull’altro prevale? La luce del ferro o che il buio delle tossine?” Diceva riversa in terra mentre la schiuma biancastra le colava dalla candida bocca, il corpo paralizzato in ogni mossa. S’addormentò, però, contenta, che quell’erba maldetta, mischiata al viola d’un liquido scelto, causava immobilità in poche gocce. Aveva ideato nuova tossina. Sperava di risvegliarsi, o dar vita per propria fede.
La mattina riacquistò il controllo, l’effetto svanì in poco. Aumentando forse la dose, da uomo a statua la vittima andava mutandosi. Avrebbe sicuramente trovato qualcun per bene avvelenarlo. Non s’arrestò neanche stavolta.
Nel miscelar tanto ignoto ella traeva godimento immane. Col legno pressava piante, lo faceva fino a svenir dalla fatica. Ora iniziava a commissionar giovani nella raccolta, e rideva quando sola, tra le verdi stese oltre le mura s’immolava storpia. Crollava ancora, si rialzava dopo giorni e nei miscugli rigettava l’odio. Alla tarda mattinata si faceva sempre rigida per poco.
“Recito parte, i miei dialoghi son molti ai modi di Terenzio, devo farli lieti per sterminarli nel silenzio.”
Quella mattina entrava Gaia ed altre tante donne alla ricerca del miglior prezzo. S’affrettavano tra le erbe, spingendosi tra loro, soffermandosi sulle più efficaci nel sottometter dolore. Locusta dava supporto, ma illuso, falsa sostanza tanto quanto fu sua carità, passione mostrata nel sedare mali. Stava rigettando nel ventre l’ira sua.
“Come fai ad avere tanto seguito, mia cara? Solo il giorno t’è alleato.” Chiedeva Gaia.
Non sapeva certo, che al calar delle tenebre, Locusta d’un nero mantello si vestiva accogliendo ogni buona moglie divenuta vendicativa e nell’udire i lor problemi gioiva.

(Wikipedia)