Modigliani in fede manifesta della bruttezza d’esistere. Cresciuto tra le rues di Livorno, in contesa d’ascesa fin al cuore dell’arte francese e mondiale. Morto in povertà dell’incompreso. Miseria è germinare controcorrente, distante dai canoni della realtà schematica che nei quadri del primo dopoguerra, sua epoca designata, imperversavano per le strade d’Europa.
A tecniche d’ombre e iridi concrete, preferì il macabro delle sue fantasie, contro il dogma della decenza. Aveva verità dal suo primo sospiro, una luce tanto unica da non immedesimarsi in altre, plasmate in movimenti di cultura del proprio presente, in non voglia d’eterno, solo in riscoperta di quei principi stesi su fogli del reale tal che appariva agli occhi di chi sol vedeva terra. Non seguir il canone, ma esserne frammento.
Eretto dal malanno d’un fisico che giovane s’ammala di tubercolosi, nato già stanco di splendere, lo tedia dalle prime crisi. Affronta la scultura, suo primo genoma, in consapevolezza del non aver affido d’una vita lunga e illustre, modo unico per incidere visione in eternità ambita, è donarsi completamente all’arte. Il credo è però che Amedeo, ragazzo la cui madre, fautrice intellettuale, lo sprona nel mostrar ciò che sente, non di certo andava ponendosi il dubbio d’una gloria, che è sol di facciata d’un intimo farsi bene, movimento spesso in turbine remante contro l’esser veri, forse la pulsazione originaria degli ermafroditi Eoni. Il suo è un cuore che va per frode. Sì, perché crescendo Modigliani stava ad ingannar la vita stessa, deteriorandone i tratti peggiori, di tanto male celato a ragioni malpensanti, tanto dolore in ogni oggetto in su dell’acqua e che in essa si muove, da far si che tutto può esser ancor più atroce di quel che è. Amedeo è lì a farsi coraggio, la miseria lo accompagnerà per l’interezza dell’esistere. Ultimo di quattro figli, il cui padre ha possedimenti d’una ditta all’orlo del fallimento. Allor che un’anima perde nel mentre non ha modo di far fronte alle responsabilità che, autonoma, s’è arrecata.
Una vita spesa in non acquisto è forse fallire?
Ed è povertà, infamia di malanno, il corpo cagionevole s’aggrappa a un filo. L’intelletto volge alla verità in su l’essenza, arriva alla conclusione ch’essa è tanto malleabile. Ogni suo pezzo va a deteriorarsi inevitabilmente nel continuum, che ciascun frammento con un sol gemito può svanire in così poco.
Modigliani allor che tanto si rassegna. L’essenza è un dono e come tale, per quanto male l’affligge, quel ragazzo di Via Roma, vuole viverla a suo modo.
“La vita è un dono, dei pochi ai molti, di coloro che sanno e che hanno a coloro che non sanno e che non hanno.”
(Modigliani)
Chi sono i pochi? Di certo non uomini, perché, come Amedeo, essi giacciono estrosi, non posseggono verità in loro vece, ad oggi al mio presente, non son lucidi. Forse un giorno andranno a sostituir con corpo gli astri, ma ora è anche stupido sol pensarlo.
La pietra è modellata, lo fa nel gemito delle sue pulsazioni, non riflettendo null’altro che non sia la sua predisposizione all’ebbrezza, più che poi egli si sedimenta allo sfarzo, all’eccesso, che il suo respiro ogni notte va incontro al limite imposto, tanto val che spinga anche il corpo a porsi al culmine del sopportabile, così da avere modo forse di vedere oltre tanta insensatezza. L’arte egizia lo modella, ne smussa gli angoli, è il 1909, tre anni prima è andato via da Livorno portandosi con sé l’influenza dei macchiaioli, ora è a Parigi, al Betau-Lavoir, assimilandosi alla massa d’artisti in miseria che andava assecondando l’impulso di tentar di raccattare pubblico lì, tra i mille sconcerti d’una borghesia acquirente, sempre meno rappresentata dall’arte, che al tempo s’andava a rifar di solo tecnicismo facendosi distante dal bisogno d’uomo di sentir chi parla di loro.
Nasce la Testa di Cariatide ed altre statue nel bronzo e nella pietra.

(scultura di Modigliani,1911)
Gli occhi son freddi, inamovibili, denunciano il reale distaccandosi, se ne fanno beffe. Il viso è allungato, deforma i tratti, in rappresentanza d’una mostruosità d’anima che ora è riflessa al tangibile della roccia. Paradossalmente è proprio nel brutto che sta la forza d’elevarsi. In comprensione del male sta il bello di potersi veder dentro, nell’abisso d’ogni remora. La scultura lo acclama. Non è interessato ai bei lineamenti dei sovrani, forse né è addirittura disgustato. Un’unicità perfida, incisa in ogni lavoro, lo fanno capostipite d’un movimento di cui egli è sol pioniere. Capiamoci, che tanto ogni bambino indigesto è sì capace di storpiare il viso su scarabocchi di pietra, ma sol una tale profondità d’intelletto sa associargli l’essenza, ideando un’estetica che è tal abomino da essere tanto eterna, quanto i minerali delle sue figure.
Quel maledetto corpo non smette però di gridare. La polvere residua delle statue gli dà dolore, crolla più volte. Continuando alla pietra non avrebbe neanche più avuto il tempo di definire un suo stile, per questo smetterà per sempre di scolpire, costretto ad abbandonare la prima forma, per farsi nuovo. Quanta infamia in tanta costrizione, da neanche potersi più permetter d’essere ciò che s’è, di mostrarsi nei propri affanni, perché tali vanno a infierire molestando, non seguendo certo il rigido delle cifre, ma colpendo al caso degli infermi. È qui il senso. Nello storpio delle ombre, Amedeo andava a descriver meglio l’incastro delle condizioni fiorenti, illogiche, meglio di qualsiasi realista in vertice. La gerarchia non è natura, che è caotica in quanto succube di disegni demiurgici paradossali. L’uomo s’adatta solo alle pulsazioni, e Modigliani ne è consapevole. Il respiro va gemendo collocandoci altrove, al seguito, illogicamente, d’una vita in pianto, e l’individuo segue il flusso, insensato, ritrovandosi a far altro, ad essere altro, e mutare piegato dal tempo, sol al fine di sopravvivere. Amedeo allor che voleva, perché era corpo, vivere almen finché avesse avuto modo d’anche solo possedere quel poco di gioia che il respiro può promettere ad un uomo d’ingegno, soddisfarsi della propria arte. È il 1914, Amedeo smette di dar forma alla pietra, ma continua ad essere Modì a Parigi. Non può essersi così conclusa. Le idee del deforme son ancor lì a martoriare le sue lune. Gli studi si son protratti prima a Firenze, poi a Venezia, ma egli è in Francia da così tanto da essersi adattato ad ogni uso. I saloni son colmi dei bigotti di chi si fa illuminato di sapienza. La strada va diramandosi in salite insormontabili. Comincia il declino, tocca il fondo, vittima delle dipendenze più insane. Nelle tanneurs de la butte di Parigi, nel lurido del buio, al modo di Merisi, il ragazzo entra in contatto col vero fervore del dire che giudica l’uomo dal basso della sua posizione. I grandi nomi lo accompagnano dalle tenebre dell’anonimato.

(Bambina in abito azzurro, 1918)
Modigliani incorpora gli occhi, tal insolito per lui è optar per questa scelta. La bimba è uno spettro, fissa il vuoto d’idee di chi la osserva. C’è l’ombra, distorta, sfumature del chiaro, il rosso del viso. Tanta cordialità in curve che però son livide, si snodano innaturalmente, disproporzione delle linee. Eppure, è quel che s’assimila a lui che era l’insolito. L’arte, quella primaria, nasce proprio dal folle dei detriti spesi in su d’una spora violenta. Consapevolezza d’essere venuti al mondo piangendo. I suoi lavori fatti in così poco, di getto, son fantasmi dell’implodere, s’alimentano di disordine, in sintesi dell’inadatto, come egli stesso era proprio inadeguato al mondo che lo costringeva a combatter demoni.
Incontra nel 1918, la bella Elvira, una prostituta conosciuta col nome “La Quique”. È lei spoglia ritratta su sfondo deteriorato.

(Nudo in Piedi, Elvira, 1918, collezione Walter Hadorn a Berna)
Modigliani fa del nudo primario sfarzo d’uno spirito che va contro le convenzioni d’uomini in condanna perenne al proprio stato d’eccesso. Tristi repressori di propri equi istinti indetti alla carnalità. La sessualità per l’arte è diritto inamovibile degli esseri annessi alla terra, e tal scalpore è gioia per chi adula provocazione. Egli sa d’aver potere di smuovere anime morte. Modigliani non è nuovo alla pratica. Un anno prima, nel 1917, alla sua prima mostra, lo scandalo in causa del controverso, all’opposto delle tendenze d’illuso umano pudore, è tastabile. Poche ora dopo l’apertura, costretto dalla polizia, corpo d’ordine, chiude le porte. La folla è turbata dai suoi nudi.

(Amedeo Modigliani, Nudo disteso, 1919. Museum of Modern Art, New York)
Jeanne Hébuterne lo incontra dopo la lettera d’una sua ex amante dal Canada che annuncia ad Amedeo la nascita d’un figlio, egli non li riconoscerà mai come tale. È la miseria del diverso, del complicato, del riflettere racchiuso in pennellate tanto semplici. Il corpo che è deciso, preciso nelle pennellate e lo sfondo colorato a linee grasse, tralasciando spazi, in non curanza dell’ideale, che non è d’interesse a quell’amore di lui riverso a Jeanne, sua musa, e mai lo è stato per tutta una crescita d’etica, però di propria verità sentita, osservata nei ritratti, perché proprio s’associa all’infantilità del lume, d’eterei mostri racchiusi in tanto onore, in tanti modi, in tante leggi. Cosicché l’uomo convoglia in necessità di farsi travolgere dagli impulsi, che son propri del suo coesistere lì al mezzo del cielo, tra campi di distesa d’erba devastati dall’incuranza. Precipitar al ritorno ad una natura che, in nome del rispetto di libertà prossima, è andata seviziandosi, corrompendosi, diluendosi in tante imposizioni estratte al fine d’impedire l’anarchia, ma di ciò Modigliani non ha seguito, non ha modo né tempo di rifletterci. Ad ogni sole che gli imperversa in volto egli va correndo in voce di nuove scoperte residenti in completezza d’interno alle sue idee. Così che la moltitudine dello spirito si cela in singolarità della carne, così nei tratti limpidi, basilari, tanta bruttezza di natura, di tanto difficile intesa, si mostra, attingendo all’esaltazione d’un nuovo modo di veder, più giusto, forse, ma comunque riformato del ritrovar l’esordio del male da cui il buio s’origina.
Modigliani è distratto, incerto, il bere ne devasta gli organi.
L’affetto ritrovato or lo rincuora, lo fa martire, ma succube dei suoi vizi incontrollati. A tutti gli esseri in terra s’adda legar merito di ritrovar un amore come quello sentito da Amedeo nei confronti della sua Jeanne. I due vanno a convivere. Insieme si danno dolore e tal che uniti vanno trattandosi nello splendore delle loro ragioni. Jeanne è una pittrice in erba, Modigliani è suo spirito, sua primaria aspirazione, due ingegni di grand’ambizioni, che son più, ancor più in alto della sola materialità del lusso; infatti, che le loro tasche son tanto trascurate, un giorno speso nei ristoranti più sfarzosi e l’altro privi di nutrimento. Son ricchi però d’inventiva. Due pezzi d’uno stesso collasso ad incastrarsi nella perfezione della bruttezza d’essere insieme.
La miseria del corpo e delle casse va così a scemare tal che s’è abbagliati da tanto supporto di certezza. Tornar in prato, veder chi t’ascolta ingrato, sentir il caldo della comprensione, lo sforzo del rendersi dinamite d’opinioni.
L’uno eleva l’altro ed allo stesso tempo lo logora.
In poco, Jeanne rimane incinta, ma Amedeo è affetto da Tisi, è il 1918, lì a Parigi sta offuscandosi il suo cuore. Vanno a Nizza, nasce la loro bambina, Jeanne Modigliani, Amedeo ha però il grigio nella persona, contempla i suoi ritratti ispirati alla sua più grande musa e poi guarda lei, nel reale, con la voglia d’imprimere quelle forme nell’eterno della sua memoria.


(Ritratti di Jeanne, Ritratto con grande cappello(1918-19) e Ritratto Frontale(1919))
È questa l’arte senza condizioni di forma e spirito, di sola elaborazione semplice, geniale nell’espressione unica, sola. Sii tu quello che voi esser, tanto decesso è in su lì espresso a seguir correnti, imposizione del vertice. Tal duttilità d’esistere è così espressa che persistere in sola utilità al prossimo, in sol inseguire canone, deglutire indigesto gli affanni della conformità, è atroce. Pulsazione controllata, messa in tela, in non danno d’altri, ed egli decise di farsi del male bevendo, affondando perversione in su al vetro, ed or quel vetro, caro Amedeo, ci impressiona ingrigendo nostro carattere, giacendo inespresso in meandri dell’accondiscendenza. Modigliani fu l’uomo sensibile, infermo, condizionato dall’umore dei suoi tratti, dalla cieca forza del sangue, d’avvenimenti messi in mostra illogicamente dinanzi a lui che non ebbe colpe; sol quella, forse, di voler vivere a suo modo, paradossale per i molti a non udire di quanta fugace illusa cordialità si macchia il prossimo degli sforzi, del lavoro protratto in malanno. Amedeo era la forza di non corrompersi, d’accettare ogni eterno male, accoglierlo e lucrare sulle proprie deformità, parlando alla folla a non conoscersi, a non constatarsi in intimo della propria contraddizione d’ego. Senza occhi per guardare, con il bello espresso nel dolore, infatti che credo di necessito ritrovar la nuova estasi nel male delle cose a noi vicine. E tanti tratti scuri, tante esperienze nel vivere per sempre nella polvere. Decidere d’essere in basso pur d’essere liberi. Modigliani, nelle espressioni d’arte sua, sa citare le mancanze, come quella che ha l’uomo nel governo di natura ad oggi. Dissimila le tecniche, le smembra e le mostra per quel che sono, quando, certo, son imposte dal pubblico volente sol inebriarsi dell’equo del loro reale, costruendosi una dimensione di fittizie accortezze, plasmate al modo dell’ordine arcaico, delle cose e del dire, ma questo è tal che ad ogni secolo corrisponde il folle dell’imporre. Morto in povertà per eccellere, dalla terra che parla al cielo, dall’uomo che parla alla natura, non sovvertendola, ma dir d’apprezzarla per quel che è, caos.
La bruttezza della sproporzione è tal quanto più logica è d’ogni assurda repressione.
Due anni dopo, con in braccio la loro bambina, Modigliani ebbe conto della propria essenza spesa Bohémien, le sostanze aggravarono i suoi malanni. Si spegne in un letto d’ospedale per meningite tubercolare il 24 gennaio del 1920 all’Hôpital de la Charité a Parigi, in preda al delirio. Stava dipingendo il ritratto di Mario Vorgogli, su d’esso scriverà:
“Hic incipt vita nova.”
Aveva solo trentacinque anni, troppo poco per esser acclamato come il nuovo ideatore d’un arte espressiva tanto unica quanto eterna. Il giorno dopo, Jeanne, per il dolore, si getta nel vuoto, non volendo esistere senza lui, morendo e venendo di fianco ad Amedeo seppellita in preghiera.
«Caro amico,
(dalle lettere di Modigliani)
La bacio come avrei voluto se avessi potuto il giorno della sua partenza. Sto facendo bisboccia con Survage al Coq d’Or. Ho venduto tutti i quadri. Mi invii presto il denaro. Lo champagne scorre a fiumi. Auguriamo a lei e alla famiglia i migliori auguri di buon anno. Ressurrectio vitae. Hic incipit vita nova. In novo anno!
Modigliani»
«Modigliani non era un vizioso, un ubriacone volgare, un decadente; l’assenzio, se lo prendeva talvolta in doppia dose, era malgrado tutto un “mezzo”, e non un “fine”.»
(Severini su Modigliani)
L’eccesso come fine per non sentir dolore, l’ingiusto d’una vita che è sempre lì indisposta a brutalizzare innocenza. Il buio illogico ad imperversare in ogni angolo del suo lugubre esistere, martoriato, deciso ad essere parte della sostanza del pulsare.
Cos’è condanna?
Ogni respiro è unico perché tal, a suo modo, sa intender male. Modigliani s’adoperò su crisi allungando i tratti, scontornando gli sfondi come faceva un pittore novello, o incapace. Le orbite vuote, segnate dall’ardor di non vedere, ed invece, paradossalmente, quei ritratti son specchi, riflessi della materia stessa in sua forma più grezza ed immorale. I nudi delle forme accentuate quasi moleste, ed ogni affanno impresso in tela, ogni poesia scritta per distrarsi, ogni lettera agli amici devastate da pensieri contorti. Un desiderio plurimo che è d’ogni essere, sol d’esprimersi nella miglior maniera, non aspettandosi la gloria presente che è di chi non va contro l’ideale del suo reale, prospettando ricchezza ambita al compiacimento della società presente, ma che di certo, tal che la massa è mutabile in condizione del tempo, come lo è lo è la decenza sua. Non s’adda aspettar l’eterno, mentre Modigliani a tal attinge, riconosciuto nella complessità come arte, avendo sacrificato molto in sua vita, e avendo donato al credo un mezzo onesto per comprendere l’irrazionalità dell’abisso, abitato dalla carne. Deciso d’andar contro la tecnica, ed ogni nuovo manifesto necessita di tempo per assimilarne la grandezza. Ed oggi è eterno.
Modigliani è l’illogico, pulsazione primaria che delinea il reale.
La sensibilità più alta dell’arte umana è posseduta da chi ne comprende il buio.

