Tal che sia una generazione tanto morta perché figlia d’altrui iniquità.
Giovani pretese vann in critica d’abbandono. Vecchie gerarchie sbiadiscono in odio del figlio, illogico.
Bastava al credo esser presenti per darsi una vita spesa in gesti d’irrequietezza, mia Spora, al presente che implori sistematica d’essere solo resa capace d’ambire al neutro, invece che giaci, tu loquace, indietro tra segmenti spinti al vertice da origini improprie, di ch’esseri che si compiacciono per molti dei propri svaghi e per la tua pochezza di materia e beni.
A te che sei immeritevole, in accusa d’apatia da stirpi di benessere ormai al tramonto. Stai dannandoti sopra strade disastrate, incipriate di piombo e malessere. Inalare tossine di ieri, in pareti lontane, rimanenti distanti, rese irraggiungibili dal lusso con cui si son loro adornati nel tempo speso, e oggi che tal quel domani è inciso della bassa idoneità della gerarchia amministrativa, sta limitandosi la stessa casa da cui tu avesti premure. Sei lamento continuo d’incapacità, senza voglia d’accrescerti, ma il divario è tanto pronunciato che ad attraversar l’abisso con sol i mezzi della carenza in cui ristagni, è folle, divenuto assurdo anche solo tentar l’impresa.
Un mondo che s’estingue nella completezza del suo passato rende figli del suo presente manchevoli nel valore.
Sul paragone con la classe di ieri v’è abnorme disordine, perché giunti al vertice in richiesta del minimo della competenza intellettiva ora si macchiano del giudizio infondato su chi ora al mondo vede la terra bruna ed avvelenata nelle falde. Ti maldici nel giusto delle tue speranze, sempre più fievoli nella crescita, al confronto di chi prima era del mezzo, come te d’altronde. A chi bastava essere nel medio ora a te impone l’eccellenza. Lo squilibrio è tanto sentito in ogni parte che i sogni son prerogativa di chi può permettersi d’osservar il minimo della luce che attende. Chi non appartiene alla parte accresciuta col l’abbondanza del passato, ora s’avvale delle tenebre e in esse s’alimenta, ma per quanto ancora? Possibile che ogni individuo s’adda rendere primario? Incredibile come l’accontentarsi non giovi più al credo. L’esistere senza pretese è diritto d’etica, dar manforte al sociale dal marcio dell’insicurezza sanguinaria nel non permettere a chi ne abusa di proseguire al seguito di chi neanche conobbe paura del non riuscire. Il vertice, se tanto ha obbligo di restar all’alto, che ci resti anche, ma ad ultimi che è concesso? Un reale decantato dai poemi del dibattito, in degrado d’opinioni in seme del prosieguo, s’è addensato nel dialogo scevro da idee, di sol morente nel compenso della massa di cui ne cerca, morbosamente, il consenso. Morale che muta sorretta dalle correnti delle statistiche, ed ora chi impiegava il minimo per aspirare agli allori, osanna il piegarsi dinanzi ad un male che disarma con promesse temprate ingannevoli di quiete d’un domani a mostrarsi decedente. Guarda come tutto è mutato da allora. Ci pensi all’eterno delle risorse che si son fatte limite? A ragioni non consone nell’operato divenire il massimo della morale, credere e ancora illudersi che la svogliatezza sia tanto motivo di crisi. Condensa, mia Spora, sol seme della trascuratezza di chi prima osservava presente rigirando viso al buio promesso dei prossimi decenni. E vivi cieco nei tuoi pregiudizi su giovani incertezze, il cui terrore di rimaner per l’eterno trascurati, li fa martiri d’un sistema a mai considerarli come principal rimedio. Possibilità di fronteggiar errore allor passa per mani di chi cresce prima del consueto. Chi ancor muore con intelletto in decadenza ha da fare il massimo per preservare il poco ritrovato e nel più breve tempo. Correre e fronteggiare il lento dell’onore. Obbligo del divenire più di proprie aspirazioni per esser degni d’esistere, ed essere massa denigrata, parte disastrata dell’oppressione, la più tetra, il veleno delle scure, senza voce di dar motivo, di far intender ai grandi che il più della colpa ricade su spalle di loro aristocrazia, venuti al cielo dapprima di chi accusano. Programmi d’intesa ideati per esporre pubblica avversione alla fragilità della giovinezza, di poco numero, di poco conto. Generazione tanto morta, seviziata da opinioni, aggredita per le piazze in oppressione. In logica s’avvede che il potere non durevole delle classi dominanti d’oggi è appunto, in su alla fine, ed il preservo va in primis, seguendo logica, alla nuova genesi, ai nuovi singoli, formati nell’ingegno per poter un giorno amministrar certi veleni delle accuse, e invece? L’odio fomentato da crisi generate per negligenza di chi vide tanta luce, scevra di competenza in incastro al fine d’adottare logiche soluzione alla carenza, in cerca continua d’un capo espiratorio in distorsione d’attenzione per modo di non intendere mancanze. Mia Spora, tu predica collaborazione, frammenti d’un sociale in macabro scalpore siam noi tutti. Sei ancor convinta di non farne parte? Sol in guerriglia a tal nuovo, son padri che van contro ai figli perché altri padri non vedano tossine. Ora che tale il sole va estinguendosi, lo splendore che t’ha permesso di non espander sapere in inutilità dell’adopero, non v’è più da molto e neanche è vostro in quanto nato come frutto d’inventiva dell’amministrazione, ma nel concreto dell’omologazione, ancora derivata da prima della venuta dei padri. Si son loro appropriati della morale d’un passato che va remoto a scemare, dimenticato dai nuovi, non spronati nel vedere come s’è decretato tanto infimo degrado. L’ignorare è di semplice costituzione, impone a masse incomprese di non gridare proprie verità; in intolleranza questa neanche si sviluppa, rendendo il nuovo di facile dominazione tanto insulso come appare. Il vero sta tra le finiture del presente, ma questo deve andar analizzato minuziosamente. Nascerà la gilda delle giovani sfaccettature, con la fame in corpo, ad averla conosciuta, al contrario dei loro padroni. Proprio sull’inesattezza, la condanna di pigrizia intellettiva s’ergerà sulla miseria degli ultimi arrivati al mondo. Capiterà, forse è solo speranza mia, infondata, mia Spora. Una consapevolezza globale del niente, in quella direzione stanno sedimentandomi certo. Una criticità inevidente è autonoma privazione, porta sol allo sconforto della perdita. Il sopravvivere è privilegio, ancor che prosperiamo nella distrazione. Una storia che poggia proprie perdite su spalle deperite dei nuovi petali potranno lor sopportarlo?
Un regno che non difende le prossime generazioni è già estinto.
Con lingua mutevole, di scarsa finitura, ad infierire sul tempo invano speso a contorcersi in mancanze, proposte da loro, nati in crisi, fanciulli son anime logorate dal disinteresse in pensieri non graduati, scartati in visione delle bocche rossastre che propongono soluzione. Ed imparano certo, crescendo con modelli immorali, ad ottener posti di rilievo per subdoli giochi di ruolo, in non richiesta d’abilità coincise. Da tutto questo cosa solo può nascere, mia Spora? Giovani spiriti andranno ingrigendosi? Ad essere peggio di chi non li applaude nel loro successi, ma ne accusa parte indegna? Sono quel che rimane della bella époque, son quelli in fame, s’ingloba fede a visioni subdole, inutili nel concreto, designate sol al fine d’accontentare la massa d’elettorato. Trascendi, sii resistenza. Con niente debba or nascere nuova linfa, in costrizione della natura in appassimento. Per forza ora, proprio tale, non per vuoto, né per privilegio individuale, per forza adesso. Arriverà il tempo della mia gente in necessità d’ascolto, in ricostruzione della malora. Non v’è rovina, almen nella totale devastazione ella non osanna martirio, ma proseguendo col riscontro, ora che tale l’eccellenza è costretta ad attuarsi nell’interezza di ragazzi in erba, mentre a chi li domina è chiesto sol un minimo d’ascolto in loro riguardi. Adempite alla speranza, alimentate la vegetazione del nuovo, ne vale del sopravvivere ancora. Dammi modo di credere, lo merito. La vita è un disastro da quando s’è volti in produzione incontrollata, da quando s’è addensato il privilegio dell’individuo in trascuratezza d’una collettività ora neutra, depensante, resa succube e ferita. Ricorda, oligarca, che senza germoglio della molteplicità, il singolo non s’eleva. Sarà equilibrio, sol questo. Freno al pregiudizio non calzante, chiedi d’essere inciso e pensa, mia Spora, rifletti, è l’unica arma a rimaner alla nostra portata. Ma come si fa? Come si può proseguire in odio dei figli con solo la colpa d’essere tanto adirati con l’essenza da ribellarsi in malo modo. Come si fa? Dalla terra contesa, dalla morte disseminata a frammenti illusi, credenti di poter prosperare se posti alla sevizia dei tirocini. Perché questo? Lo meriti davvero, tu Spora? Lo merita chi nato in non richiesta ed è a rimpiangere l’aver respiro fino ad arrivar nell’asfissiarsi? Guarda, che senso ha? Qui al di sotto della pochezza, che possibilità si hanno? E piangi ancora, ma non tentar d’emanciparsi è resa, discesa in direzione del tedio. Non voglio esser obbligato a divenire unicità, non la posseggo, ho voglia solo d’acquietarmi nel grigio, nel neutro. La generazione peggiore in concomitanza d’impoverire le prossime per non essere reputata tale. Tante icone i ragazzi, sol a questo protratti, figure d’apparenza dietro fini ignobili del grigio, solo corpo in merce e poco ingegno, perché se funzionale egli dubita ed una massa che di sé diffida, è complicata da amministrare. Guarda, se ciò basta a essere in pace, possiamo tentar d’essere astri? Cosa ci costa? Finire schiacciati dal confronto, derisi da chi non possedette clemenza. Opinioni plasmate su un reale benestante or estinto.
In pochi di numero, spinti alla trascuratezza di pensiero ai fini del dominio.
Aggrediti se fruitori di libere idee.
Odiati da padri in invidia della luce.
Apatia nel dialogo, creature a non ambire. A rievocarlo in continuo, si fomenta infondata credenza, trascendi.
Obbligati ad esser preminenza per non perire inascoltati.
Coordinati dal basso per rimanere alla condizione dell’incerto.
Sulla decadenza dei fiori sarà resistenza.

Dipinto della battaglia di Soufflot barricate a rue Soufflot il 24 giugno 1848 by Horace Vernet (1789-1863)
Ho visto vecchi oligarchi dall’alto degli attici inneggiare al cambiamento e giovani petali per strada odiarsi senza giudizio.