V’era sporadico lume,
impazzivano gli infermi,
fatti santi del disfatto,
devastati dal malanno,
dacché su lugubre marmo,
giaceva incolume e rovescia la croce.
Violentavano streghe su roghi d’oppiacei,
estirpavano fiori da lembi di ventri di morti infetti,
deturpavan le pietre dei freddi letti in nome d’una vocazione,
quella unica d’orrenda egoistica salvezza,
prode ebbrezza v’è nello sterminio?
Lune in crisi come su fogli del sidereus,
viri immersi in visioni d’orror feconde,
sonde in cielo e in terra ronde,
trascorreva vespro di senso malevolo ed avvelenato.
Non poteva Azrael distinguersi dagli uomini,
né il lugubre del suo seguito.
Apleda, città dell’ipocrita,
sorgeva presso le cime innevate di Naeride madre,
or tutti scheletri annessi al monolite,
nera lapide al cimitero di corrose fate,
grata la prima donna al vate credette,
scomparve esiliata, disonorata,
plebe incosapevole,
demagogia eletta.
Gli infedeli eran ombre storpie del riflesso
e s’aggregavano al buio.
Di suo gemito, Mora,
col sangue,
li guidava sola;
in paura dell’aurora,
fuggiva il popolo, ma dove?
Quei bruti emergevano tutti dal fiume,
riversandosi in orgia.
Appartenenza forgia lode,
ma c’accade se in unione nessuno in soccorso accorre?
Volle svelarli,
lei agli inferi,
ogni ipocrisia d’un profeta demiurgo,
d’una falsa via
e li divorava crudi adoperando malattia.
Venne fuoco alle esuli dimore,
tirate su da braccia di miserabili e sudore,
Apleda cadeva come a Farsalo gli ottimati.
Mortalità di comunità è moltitudine di vizio,
allor mi domandi,
come striscia contagio nel silenzio del supplizio?
Apleda fu prospetto di quel che sarà?
Non voglio crederci.
Con tentativo vano di valicar le mura,
s’ammassavano morendo al fondo.
Non v’era certo modo d’abrogare l’avvento immondo,
non andar cercando tra i massacri,
su prato di pile arse liquefacevano cadaveri,
logica d’abuso storpia storia degli annali.
È epidemia delle lapidi,
della morale illusa e del sol neutro orientamento.
Appassivano gli organi,
dalle carcasse ancora sanguinavano,
non eran risparmiati dal gemere neanche gli eletti,
spiravano tutti,
certo prima i fragili e i difetti.
In due anni di molestia mi diede ribrezzo lo stesso spirito.
Apleda era polvere,
dintorni immolati e sogni anche spezzati,
sul fondo dei pozzi seppellivano propri cari,
spogliavano incolpevoli corpi di nobili rapaci.
Mora che m’hai questa è fermezza,
molestia è necessità per arretrar all’Adeano?
Non voglio udir l’arpie.
Allor che fecero?
Racconta, o padre.
Quelli dicevano d’essere fratelli,
ma non nella fine a quanto pare,
sventravano donne e bambine al minimo accenno di malore.
Bastava dar loro sicuro asilo,
avrebbero certo predato del rispetto i loro valori.
Allor, come t’immagini,
in cerca strenua di difesa,
si muravano isolandosi;
arterie date al cemento
e in sol minuto scempio
non v’era più dolore,
ma giovani in lacrime cedevano alla fame.
Vittime disunite, come potevan sopravvivere?
Bisognava allor cercare i soli, i vincitori,
ricchi tutti, ma in smorta terrena prassi,
sicuramente stavan già progredendo nelle eque norme,
pensavano gli ultimi in catalessi.
Ci proteggeranno, s’auguravano.
Così il popolo andò frugando nei palazzi di potere,
poi per le case,
in parlamento,
nei monasteri, nelle chiese
e nei lupanari.
Si muoveva sanguinario,
feroce branco,
coi corpi cosparsi di fango,
fanciulle oneste or demoni,
madri martiri e padri logori.
Gli infermi avevan pelle cadente,
iridi malate, squarci su grembi e zigomi,
s’erano amputati da soli gli arti pur di sopravvivere.
Calò sempre più lume ad Apleda,
che la sera spronò la notte.
Alla fine, li trovarono avvezzi al proprio,
come di solito s’usa tra spettri loro,
i degni rappresentanti,
con borse e mezzi di sostengo in spalla.
Quelli si rigirarono e videro scempio d’una folla di resti d’ossa
ferma ad attender, in sosta, la mossa dei lor padroni.
I sovrani ebbero terrore,
tremarono tutti,
in paralisi a contemplare quei lor sudditi con orrore.
Che stavan facendo i regnanti all’esterno delle mura?
Chiedevano i cittadini.
Fu presto svelato l’inganno,
stavan loro dal dovere scappando, credimi.
Furono i primi dell’amministrazione incapace
a tentar rocambolesca la prima fuga.
Gli infermi li avevan colti in flagor di tradimento,
sempre più cupo l’ordinamento or naufragava.
Accadde in un attimo.
Risparmiateci,
pregarono i senatori,
non udirono sermoni i fedeli elettori,
li braccarono al confine
e li gettarono smembrati in un vicino fienile.
Dannati pensatori,
dannati gli onesti,
l’etica e il cuore,
dannata la scienza,
incapace d’assenza,
si mostra presente in ogni dove.
La bruttezza degli interni vien fuori dall’urgenza.
La comunità trascurata si devastò odiata,
non avevano capito come unirsi e fronteggiar la belva,
eleggendo elegia e non competenza,
preferendo l’oratoria,
aver nemico, esser illusi,
all’integra essenza,
eran stati estirpati alla vita loro.
Mora, il morbo, li ebbe a sè come vermi di terra e d’indecenza.
Venne meno la speranza.
Odiandosi in proprio,
s’uccidevano i ben posti d’ingegno
ed i peggiori parlavano non sapendo e mai tacendo,
fecero sopprimere condannate d’anime innocenti milioni;
verminarono dal cielo gli stessi colori,
lo sterminio s’andava nutrendosi senza ritegno.
Stava l’aria ingombrandosi di piombo,
la carne ancor viva s’oscurava restringendosi,
tormentando scheletro,
i noduli in gola s’ingrossavano,
nel poco sonno asfissiavano.
Al solo sospiro di tossina ogni creatura,
in sua maniera elettiva reagiva,
ammassandosi sulle strade,
nei vicoli, nell’ingombro.
Ogni consumatore in mal modo finiva.
S’avvistavano gli stupri, le frodi e le contusioni,
i visi deformi dall’agonia,
l’insonnia carogna,
le parole in calunnia,
inabili mormorii,
il sangue e lo sconforto,
i più forti banchettavano con le viscere dei dimenticati.
Nessun allor poté scampare al cieco produrre bisogno,
nulla ad Apodea fu più umano,
del violento delle ninfe fu l’esordio.
Ed il popolo?
Alla fine s’erano avvelenati tutti.
La città fu necropoli in così poco,
rapida quanto il voluto molesto incompreso progresso.
Anime nutrite di nulla avevano carne putrefatta ora, maltrattata.
Inadeguati intelletti non seppero compier l’impresa di contener tossina
ed era ora digerito ogni reietto.
Calò il silenzio sul cimitero degli infermi,
predicando raziocino dei non abili
lì dove non andava trascurato pulsare.
Allor i superstiti arrivarono a strozzare i figli infetti in sconforto,
per poi tagliarsi le vene a lor volta,
così finì la vita e venne l’abisso.
Apleda, città dell’ipocrita,
da allor non ha più riso.

Il Grande Caprone, Francisco Goya(1797-1798)
