Non ha logica riportare i fatti, ma narrare partendo dall’esordio è forse vano tentativo nel preservo disperato di quel poco che giace ancor illeso della mia psiche, molestata ferocemente dal mondo perverso e dall’inspiegabile sanguinaria storia che in esso s’ambienta.
Tempo fa, in una fattoria lì a sud, tra l’erba delle ormai domate selve, un innocuo ed esile capretto mi fu strozzato dinanzi agli occhi. Il corpo flesso e le grida d’orrore rivoltimi in supplica dall’animale, prima che possenti e ferme mani d’uomo potessero torcerlo fino ad asfissiarlo, mi son vive dinanzi agli occhi. Rimasi, sì, disgustato dalla scena, tanto però non bastò a farmi desister dalla mia maledetta e insaziabile voglia di comprendere il male, convinzione cieca del credere che sol in intimo del buio più fitto vi risieda chiave per debellarlo una volta per tutte, follia. Dopo l’atto, la tenue creatura mi pareva ancor cosciente, lo era in mia approssimazione del torto, sol paralizzata stava fissa, immobile. Congetturavo sulla sua immagine nitida nel mentre stava l’animale accorgendosi d’essere invaso dal freddo della morte illogica. Il colpo brutale non aveva causato evidenti traumi, ma certo, non v’era più luce in volto suo, paralizzato ogni arto, sottratta ogni facoltà di respiro. Il cadavere, par strano riportarlo, ma di quel si trattava, fu adagiato su un tavolo di marcio legname. È arduo descrivere il senso, chiunque, seguendo le urla della creatura, come avevo fatto io pochi minuti prima decidendo d’entrare nel rudere del piccolo allestito macello, probabilmente aveva obbligo d’essere consapevole di star per assistere a un massacro in piena lucidità d’agire, ma non fui tanto scaltro. Pregai tra me di poter ancor sentire il belare del capretto. Lo fissai tanto intensamente, come se il mio desiderio potessero realizzarsi, ma quello giaceva coricato su un fianco, il vuoto in sé. Si rilassavano adagio i tessuti e l’epidermide, che il per sempre del lugubre è verità mai svelata e fu proprio questo ad alimentare il folle. Io, doratore del suo sangue che desiderai veder sciolto lì in terra. Sì, sapevo che sarei stato accontentato, ma l’etica e il valore mi riportarono a terra nella mia forma. Dovevo mantenere decoro, a freno le pulsazioni del macabro risiedenti in me solo, anche se di questo non ne sono del tutto convinto. Stupido che credevo palesate al macellaio le mie perverse riflessioni e invece quelle mi stavano solo ribollendo dentro indomite. Tastai le membra rigide. I versi estinti poco prima, ricordavo, eran bassi, atroci ad evidenziare lo scempio subito. Mi convinsi d’aver udito una richiesta di soccorso ed averla ignorata. Fu atroce solo il rendersene conto. Assecondai il mio orrore. Decisi di non assediarlo col perverso, ma abbracciarlo nella sua interezza. In vita e in autoanalisi quanto, non so dirvi, mi reputavo tanto amante del bello e della vita in sé che il solo accusarmi, da me, di non aver fatto nulla per impedire l’aggressione, mi devastò. Accolsi l’afflizione, finalmente sentivo pietà. Ero salvo, certo. Fu la prima volta che accostai la morte d’una creatura tale alla fine d’un essere che tanto degno come me di vivere aveva certo ambizione; però, non seppi domare per bene la reazione, mai potendo prevedere che quella del mio conscio, in risposta al fare neutrale, accondiscendente, potesse colpire tanto voracemente. Agonizzai. Le fitte risalirono dal mio ventre all’istante. Lo stomaco mi si contrasse in una morsa di terrore e angoscia mai provati prima. Fui pervaso da un senso d’impotenza tale che mi si smorzò il fiato in gola.
Perché, a questo punto, non me andai?
Forse mi sarei salvato dal baratro che da quel giorno m’inghiotti per l’eterno. Non so dirlo, anzi forse volli imitare il capretto nella sua immobilità perenne per ingannevole compassione. Mi decisi a rimanere fermo allora, per accompagnarlo, per dirgli d’esserci; un gesto egoista per salvarmi dalle mie colpe, uomo quale sono. Decisi, allora, d’assistere al processo nella sua interezza. Ecco che la mannaia del macellaio squarciò il fianco dell’animale. Il sangue fuoriuscì copioso e con cura il capretto fu privato d’ogni organo. Mi compiacque il gesto, l’odore aspro delle interiora riverse, ma poi sovvenne ancora la nausea più immonda. Prima venne fuori il cuore, grande, intriso di rosso, con decisa spinta fu staccato da arterie e vene, e poi lo stomaco, liquidi giallastri lo impregnavano, imbrattarono il pavimento sudicio. Quel piccolo intruglio di filamenti rosa, prima appartenutegli, fu poi adagiato di fianco al muso del defunto, quasi come per fargli ulteriore sopruso, per ancor di più sbeffeggiar l’aria da egli inalata in passato. Un respiro, che se non c’appartiene in proprio, di meno vale ai piedi dei possessori d’un domani degli ultimi. La carcassa, infine, fu sviscerata, rimossi gli organi, devastate le connessioni neurali, privato di peli e pelle. I suoi neri occhi furono gli ultimi ad esser ancora riconducibili all’essere tenue che vidi attraversar la soglia della vita per essere spedito agli inferi con estrema ferocia. L’ultima parte a rammentarmi cos’era, creatura indifesa strappata al mondo da una lama avversa, colpendola ferma adoperando inganno. Furono pochi minuti. Con rimprovero, ora, quelle orbite non più mi squadravano, rimosse furono gettate nel secchio lì a terrea. Su quel tavolo ora non v’era che una massa pulsante e molle di cruda carne. Quanto di morte sarebbe stato il gusto nell’assaporarla?
Solo in quel momento, non più riconoscendo il capretto nell’ammasso di polpa cadaverica e tanto viscida da far ribrezzo, fuggì all’esterno e rigettai chinandomi in terra, crollando, sguazzando nel liquame del mio disgusto. Io, un individuo ben formato, tanto debole e fragile da non riuscir a sopportare la visione d’un essere insulso perire per sazietà dei prodi?
Per forza, deve esser stato quello l’inizio dell’eclissi.
Tornai in città camminando di notte in preda al delirio, di questo ne sono certo. V’erano ombre nei boschi ad avvolgermi per i tratturi, mordermi al collo, torturarmi, farmi a pezzi per poi ridarmi vita, continuamente, ed avvoltoi strapparmi il fegato e ricomporlo. Fauni estrarre a forza le arterie dai polsi tagliati e riadagiarli sotto la cute impiantando tossine con sputi negli involucri della mia carcassa.
Ovidia, mia moglie, a suo dire, preoccupatasi per il mio ritardo, rifece la strada che dal nostro appartamento portava al macello. Non posso essere sicuro d’altro. Ovidia mi racconta d’avermi ritrovato sul ciglio della strada, all’entrata della nostra cittadella di residenza, Apleda. Siamo andati nel punto esatto, lì non v’è luce alcuna. Lei compì un miracolo. Dormii per due giorni interi. Forse entrai in coma, ma dove fui posto? Nel mio letto o in quella d’una ospedaliera struttura sconosciuta? Dubito, inizio a farlo per davvero. Io amo Ovidia, l’amo dal profondo del mio cuore. Ci conoscemmo tra i banchi del nostro liceo e da allora siamo rimasti insieme fino ad oggi. Non potrei mai dubitar di lei, mai.
Cosa ancora so di quel che accadde?
Ricordo il freddo, certo, ebbi geloni alle mani per settimane. Ero per forza entrato in contatto col gelo assiduo della regione, era anche inverno, sono sicuro. Tutto, ai miei occhi, quella notte, per colpa della condanna d’un capretto, divenne potenziale carne tumefatta. Temetti per il mio vissuto ridotto a polpa viscida e malata. Al risveglio non mangiai nulla per tutti i giorni successivi. Ero a casa. Tutto quel che avrei ingurgitato per mio sostegno, nei miei incubi, appariva come solo sottratto ad altri, ed uccisi quelli con le mie mani, creature di terra, mare e cielo, mi sarei cibato di loro, per poi rigettare nelle loro carcasse come i fauni del bosco. A seguito, nelle notti m’apparirono prima sì cuccioli di capretti, poi bovini, equini, cani, seguendo come un rigido schema gerarchico che pareva mostrarmi l’ipocrisia decisionale di porre pochi spiriti al di sopra d’altri e dove allora culminarono le visioni? Successe che un pomeriggio, in piena lucidità, o almeno credevo, giuro d’aver percepito voglia d’alzarmi dal letto, di scendere in salotto, far a pezzi Ovidia e divorarla con gusto. Ecco, ero infine giunto al baratro, la mia psiche compromessa per sempre. Gridai tanto fino a perdere completamente la voce. Ovidia pianse di fianco alla mia afflizione più tetra. Insieme crollammo tra le nostre lenzuola. Mai lei m’abbandonò al mio sconforto con la speranza che un giorno le dicessi d’andare a prendere del cibo, qualsiasi genere, per saziare il mio ricomposto appetito. Diventar pitagorico forse. Il mio stomaco però s’ingrossava. La mia fame deleteria, irrefrenabile, che però giaceva intima, non sfociando in concreto bisogno, come rimanendo inalterata in pezzi del mio essere senza palesarsi mai, si faceva sentire. Le mie forze perdute col passare dei vespri. Avevo appetito, ma qualsiasi alimento che Ovidia proponeva mi dava profonda repulsione mai provata. Un sentimento nuovo al mio cospetto, forse, mai avvertito da individuo solo. Cosa m’accadde ancora? Non lo so, non riesco a spiegarlo. Provai ad ingoiar con forza, ma vomitai più volte. Ogni tentativo risultò totalmente inutile. Non potevo continuar così. Se avessi rigettato in terra gli ultimi miei liquidi sarei morto nel mio delirio. Ebbi timore della morte? No, non credo. Quel che mi terrorizzava davvero era perir nel mio insensato vagheggio, senza neanche aver più la facoltà d’ascoltare i sussurri d’Ovidia, di riconoscere le sue premure; non avrei baciato le sue labbra un’ultima volta al momento scelto d’udire i bollori dell’ade bramarmi dal fondo. Non avrei potuto onorarla a dovere e dirle addio. Non pensavo ad altro, se non a lei, al dolore che il mio decesso le avrebbe causato. Però, al contempo, v’era anche la mia fame invisibile, molestatrice, che non voleva saperne di placarsi per davvero, e gli incubi, belve d’ogni tipo si palesavano ai miei occhi, io le aggredivo, o almeno desideravo ardentemente farlo e poi godevo del lor corpi, ma perché allor non riuscivo neanche a deglutir carne animale? Avevo bisogno d’aiuto, certo, cercavo di dirlo a mia moglie, sì, ora ricordo, le mie corde vocali eran però inutilizzabili, ma io scrissi. Scrissi a lei di cercar supporto. Avrebbero potuto nutrirmi in qualche modo. Ovidia ignorò i miei segnali, però la vidi certo disperarsi per la mia condizione, mi sto ingannando? Mettere in fila pensieri frammentati può essere la chiave. Ovidia mi pose davanti uno specchio e dopo settimane osservai il mio volto scavato nell’angoscia che non più m’apparteneva, lo fece in preda alla disperazione; forse credeva che rendendomi conto della situazione disperata, la mia psiche avrebbe come obbligato il corpo nell’optare per ogni estrema soluzione al fine di preservare la vita. So solo che in quel momento capì d’essere al limite. V’era mia moglie che m’abbracciava, ecco, sì, mi stringeva a sé. Nel suo sguardo impressa la sottomissione più cupa, dannando la stessa esistenza che ora ci condannava ingiustamente. Iniziavo a rifiutare persino l’acqua limpida dei ruscelli. Lei mi guardava appassire, svanire in atrocità, tra le torture d’una fame come dissolta. La mia pelle s’assottigliava alle costole sempre più visibili. Avrei voluto ricambiar il suo affetto, ma giuro, non riuscivo a farlo. Perché mi sono assenti dalle visioni le sue frasi? Vedo solo pochi momenti d’arresto dove Ovidia si mostrava in tutto l’amore riverso a me. I suoi lineamenti storpiati dal dolore; anche lei non mangiava, sarebbe morta. Volevo dirle d’essere forte, di magari risposarsi, essere felice, avrei pregato per lei dall’altra parte. Respiravo a stento, le convulsioni sempre più m’invadevano, i battiti s’affievolivano, la speranza s’era spenta. Pensavo al capretto, convinto di meritar quella fine assurda, anche se non compì di mio pugno il massacro; Il sangue mi puniva tanto violentemente per il nulla. Non rimpiangevo le mie azioni, il mio vissuto essenzialmente improficuo, ma non sopportavo l’idea di ritornare alla dannata terra da cui venni fuori senza neanche aver potuto maledire il male che m’affliggeva perché ignoto. Son sicuro d’aver visto le soglie dell’inferno pronte lì ad accoglierli ed il diavolo, incarnato in una rossa e sanguinaria ombra di viscidi e numerosi artigli, senza occhi per vedere, ma con stomaco per ingoiare tormenti; stava col dannato capretto tra le braccia ondulate ad attendermi per far a pezzi l’animale, farmi ingoiare con ferocia ogni pezzo del suo cadavere. Questo è quanto, ma fu solo l’inizio, il mondo che descrivo è ancor più tetro.
Rileggendo le mie memorie m’accorgo del grottesco.
Ora devo parlar con Ovidia, lei di lacrime si temprava, allor perché non mi fu dato supporto concreto con specialisti al seguito? Qualcosa di questa storia mi sfugge.
Ovidia non è in casa, ma da quando è fuori? Non saprei dirlo, possibile? Non saprei dire neanche che giorno è oggi e perché andai in quella fattoria. Facciamo ordine.
Oggi ho parlato con un’ombra delle tante che da quel giorno si sincerano delle mie condizioni. Questi uomini, se d’uomini si tratta, stanno, ultimamente, parlandomi molto spesso della carne e della sofferenza d’esseri tanto pietosi cresciuti per sazietà dei vincenti, vivi al fine del nutrimento, eppur non serve rammentarlo. Fatto sta che dalla lor venuta non ho più avuto bisogno di digerire alcunché. Cerco di ricordare. Quella notte, l’ultima, vidi Azrael sussurrami d’attendere che attraversare non sarebbe risultato arduo ed io che scrivo ripensavo al gotico, alle maschere del rosso e alle vette folli di Apleda, la nostra città. Vidi l’interezza delle creature a comporre la mia fantasia, che mai avrei sognato di divorare a crudo, star in cerchio delineando i miei tratti ed avrei voluto farlo anche io, tastarmi per aver facoltà di rimembrare cos’ero divenuto dopo la fame. La mia stanza era tutta un miscuglio d’omogenee sensazione occulte, nefaste ad ogni senso d’ambizione, unica fonte di perseveranza, di forza d’attingere all’affronto di tali molestie in vita, ed io sentivo che tanto paradosso si respirava afflitto tra i nostri mobili scuri. V’era l’uragano fuori. Il vento ruggiva ai vetri. L’arabo incantava con pozioni d’acido. Avrei voluto che me le somministrasse per attenuare almeno il dolore provato per l’ultimo mio sospiro, ma le mie suppliche non furono accolte. La pioggia batteva incessante ed io stanco non avevo neanche forza di salutare la luce col minimo che mi rimaneva della vita in corpo. Ovidia mi stringeva la mano, una sensazione di così profonda angoscia incerta, perché incerto era il male che m’affliggeva. Vidi dalla finestra, dinanzi a me, tutti i cadaveri eretti e avvolti nei sudai. Tenevano in mano i lor capretti salvati dallo sterminio. Attendevano la mia unione alla bestia che è la vita terrena e ora sapevo che m’attendeva ancor peggio altrove. Sopportavo, non importava, avevo imparato a farlo da sempre. Cosciente di quel poco da chiedermi, se una volta morto, Ovidia m’avesse divorato allo stesso modo in cui io immaginai strapparle le viscere con i canini della dentatura e come avrebbero fatto della polpa cadaverica del capretto strozzato. Mentre mi spegnevo, sì, ora m’è chiaro, Ovidia chiamava dalla porta qualcuno, qualcosa, ed essi giunsero in processione. Erano gli stessi cadaveri avvolti da stoffe biancastre forse per celare la decadenza malata dei corpi; da fuori si scaraventarono all’interno del mio giaciglio. Non riuscii a distinguere i lor volti. Ancora oggi dicono che non posso io aver facoltà di contemplare tanta finezza d’ingegno e quindi quando m’appaiono occultano fattezze con falsi volti deperiti dalla vecchiaia, appassiti, ma stavano in piedi, volevano me. Quella notte mi dissero di dormire e io lo feci, un ultimo sforzo e serrai le palpebre, con la consapevolezza, la più rassegnata, di non più poterle riaprire e guardare con orgoglio il mondo ch’acclama odio.
Che la carne è morte e cibarsene è scempio, lo ripetono sempre, ma poi chi lo impone? Mi risvegliai rifiorito, un vero miracolo. Il mio delirio s’era attenuato, riconquistai il mio aspetto, parlai con loro, mi diedero in mano un capretto dal pelo bianco e belava tra le mie braccia con entusiasmo, ma stando quieto a sentir quanto calore potevo donargli. Non mi sarei certo più alimentato di morte, decisi così, con la stupida certezza di poter liberamente scegliere. Ero guarito, mi dissero. Mai più avrei commesso crimine di inghiottire pezzi di cadaveri seviziati. Eppur, sì, mi sentivo diverso, il mio appetito era lo stesso. Il mio ventre infastidito ad ogni possibile razione, fino a che mi convinsi di poter sol digerire acqua e qualche sporadico ortaggio. Non sarebbero bastati di certo, ma le ombre m’assisterono. Ovidia era tra di loro nel mentre, lo è stata fino a ieri, ma quando fui rinvenuto, lei non m’era accanto, continuava a guardar la scena con quegli occhi viscidi di mandorle acerbe, riluttante forse sul da farsi, asciugava le lacrime. Sì, m’avevano salvato, ma capì subito ch’essa aveva pagato un caro prezzo. Ovidia, ora me ne rendo conto, non fu più la stessa. Gli esseri ignoti spesso le accarezzano le ciocche scure, il gesto mi dà dolore, ma non posso ribattere, alle ombre devo ogni cosa. L’uragano non è finito, sembra continuare eterno, o almeno è modo, il tramite, la fonte del nefasto, abbassarsi ai canoni del disgusto e del ribrezzo per poter analizzare, al meglio, il tetro d’esserci, però serve scrivere ed io smisi dopo aver veduto il macello, lo feci per star accanto alla mia Ovidia che sentivo sempre più distante. Sì, ora che scrivo, posso convincermi. Devo domandarmi se non d’anime, ora con cosa mi nutro? Le ombre mi guardano ancora, celate nelle lenzuola tenute insieme da catene e le facce di plastica e colla. Quelle vecchie depresse rughe deformate dalle vivide pupille mi balenano davanti anche ora, son sicuro che mi chiederanno di mostrargli i miei ultimi testi una volta concluso qui. Sì, lo fanno sempre quando una mia mossa li insospettisce. Devo chiuder la questione. Non so come reagiranno una volta che avrò terminato questa storia, una volta che avranno veduto quanto io dubiti di tutto questo. Dunque, certo, io non ebbi più fame di bestie. Le ombre hanno un legame con Ovidia, ma non posso parlarle adesso, vorrei chiarire, provo a rifletterci. Son loro a nutrirmi e lo fanno col rosa d’una polpa malata. Mi dicono, non mangerò più bestie, ma onnivori. Sì, è giusto, ma non è ipocrita? Come posso pensarlo? L’uomo ha merito d’angoscia funebre. Torturano cuori infelici e orridi, crudeli col prossimo, molestatori degli indifesi esseri al suolo, uomini onnivori, coloro che trucidano per loro egoistico nutrimento, è equo. No, forse non lo è, non ne sono più sicuro. Ed anche oggi ho mangiato polpa, mi son accorto dei nervi attaccati ad esso, non è però carne d’alcuna bestia e di cosa allora? Sì, certo, le ombre mi dicono che la vita d’un assassino vale meno d’un capretto immolato, allor mangio convinto. Il liquido giallastro mi cola dal muso, digerisco i piccoli filamenti d’arterie, sento una vita che si spegne a contatto coi succhi gastrici del mio stomaco, ma quel respiro, voci mi dicono, apparteneva ad un ingiusto e quello ha colpe che s’estirpano solo con la fine più truce, perché certo, non posso viver d’acqua ed erba. Onnivoro rimango, lor vogliono questo, si divertono nel plasmar la psiche di noi uomini e darci in pasto i nostri fratelli, sì, è giusto, m’hanno salvato. Questa carne è umana. L’unica salvezza per le bestie di terra è davvero sol quella di far sì che i lor carnefici ingoino il putrido della materia d’uomini, dei loro amici, conoscenti, familiari. Stasera avevo nel piatto, lì, di fianco, mia madre, i suoi organi eran acri. Sono, comunque, due estremi che vanno in direzione dello sterminio. La donna fu dentro di me come forma di polpa pressata. Sento di star per rigettare ancora. Ipocrisia delle ombre in difesa degli oppressi.
Veder l’umanità dimezzata farsi a pezzi inconsapevole, disunita.
Sono lucido adesso. Scusa Ovidia, ho deciso. Non voglio più ingozzarmi di creature incolpevoli, designate come solo alimento, ma neanche nutrirmi con carne degli oppressori. Meritano tutti di vivere se v’è solo un’alternativa, sempre in rispetto delle prerogative d’altri. Niente merita d’essere obbligato a sanguinarie imposizioni di vita e dieta, ma v’è orrore. La mia psiche è compromessa. La violenza d’un mondo in tragedia che analizzo nella concretezza della mia ragione ormai danneggiata dalle tue ombre. Cannibalizzare, mi rifiuto di far altro. Il mio corpo rigetta tutto ciò che non è materia umana. Ombre continuano a contemplarmi in attesa. Appena terminerò di scrivere, scaraventerò violentemente la mia testa contro il legno della scrivania fino a devastare mortalmente il cranio. Ci vorranno due, forse tre colpi ben assestati, non mi fermerò per il dolore del primo impatto, prometto di perire. Guarderanno con orrore la mia sostanza sparsa sul pavimento, al modo del povero capretto senza scelta. Spero si ricrederanno sulla follia lodata. Tutto un lor disegno per rendermi belva.
Ovidia, tu sapevi? Ti amo e ti perdono per aver venduto la mia coscienza. T’amerò ancora in terra del buio e striscerò nell’attesa di te. M’oppongo con la morte. Raggiungimi alla fine. Ora sono pronto ad apporre titolo alla storia. Alzo i capelli dalla fronte, ho delle cicatrici alla tempia. Perché trovo gustose le membra dei miei simili? Ovidia, ho inghiottito un feto d’uomo. Cosa sono diventato?

“Ai piaceri insulsi del deglutire carne morta e alle ombre di falsa benevolenza estremizzata nell’obbligo di dieta etica imposta alla massa ineducata ed affamata”
