Il racconto della Nobile Torre

V’è un’antica storia che padri a padri, a me legati in discendenza, vanno tramandandosi al fine di preservarla per la prosperità delle generazioni prossime.

Resto a interrogarmi sulla morale incisa in essa, trasgredendo al divieto imposto, a mio avviso insensato, di mai riportarla su carta, ed infatti sono consapevole che l’orale narrazione dei millenni ha storpiato, forse, le caratteristiche originali del racconto primo. Questa qui riportata è, ovviamente, la più recente versione, designata nei miei anni. È una storia d’un orrore indicibile, più profezia che mito, ma sto ora a scriverne gli esiti con la forte convinzione, maturata a seguito dei miei studi, che la debellazione del male al mondo non sta nella strenua ricerca della sua dipartita, impossibile da realizzarsi e nociva per lo spirito, ma nel contenimento d’esso ad opera del suo uso consapevole. Un reale equo adotta il buio per comprendere il modo di splendere. Fortemente convinto di ciò, m’attingo a narrare le cronache di tal tragedia inverosimile, dispotica, raccapricciante nei suoi eccessi. 

Ad un certo punto d’un domani vago, cupo, dove la notte abbraccia il fine d’ogni passo steso al suolo desertico in direzione della fine, ad occidente, la sola ricchezza primaria, sempre più pressata in mani di pochi favoriti, col passare dei secoli, indusse il popolo offeso, che credeva d’aver subito un indicibile torto, a maledire la conoscenza e lo sviluppo nella sua pratica; questi, gli ultimi, nel tempo, andarono dicendo che tal sapienza ed istruzione, inutili erano al fine d’adeguarsi ad un sistema che li rigettava in ingresso ed allora vennero ad infierire contro le case degli ereditari, sterminando loro e i loro figli. Si giunse a pile arse d’interi spettacoli empi, cadaveri ammassati l’un sull’altro, storpiati nel ventre e negli interni, seviziati per l’unica colpa di possedere eccessivamente. Individui abusati dinanzi al lor piccoli e poi fatti a pezzi inanimati con occhi cavati dagli involucri adoperando tanta ferocia da far rigettare in terra gli stessi carnefici. Montagne d’orrore giungevano fino al cielo di deformità ambigue e dannate, come a fondersi con le gesta insane dell’umano pensare. Un odore acre di morte violenta si diffuse a macchia per ogni continente e periva chi da solo acquistava ed aveva tanto, anche se non si stabilì mai una precisa soglia di possedimenti oltre la quale la tortura delle carni diveniva unico modo d’espiazione delle ingiurie fatte all’integrità d’una massa resa povera e che ora desiderava la pace idealizzata, quella, a loro credenza, d’un tempo remoto, dimenticato. Si volle, quindi, ritorno ad un passato lieto, condannando l’oggi di scienza e non etico. In pochi anni, quelli decisero di bruciare ogni sfarzo, promettendo di sopprimere i loro estinti d’uomini dediti all’accumulo selvaggio non sottraendo possedimenti ai nobili uccisi, ma peccarono in molte occasioni d’ipocrisia subdola. Agli ereditari trucidati s’accostarono anche le competenze di molti, che tali avevano fatto strada nell’ambire a possedere unica voce tramite interessi, passioni, studi, per essere d’aiuto al sociale, ritrovandosi poi ad avere modo d’ottenere dei beni ingenti da garantirsi, quantomeno, un presente lieto. Non bastarono le suppliche, barbarie comunque furono imposte ai loro cari. Quelli non fecero distinzioni, tutti possessori sentenziati colpevoli. Viscere turgide erano estratte a forza dagli involucri; bocche serrate, afflitte da urla affogate nell’angoscia di darsi alla morte in quel modo indecente, sì, perché le vittime indugiavano coscienti per quel poco del macabro atto; quando erano i filamenti d’organi a venir fuori e masticati con gusto dagli aggressori, infatti, loro vedevano il modo nel quale stavano venendo ingurgitati e d’orrore morirono prima della digestione.
Nel mezzo dello sterminio, v’erano, però, quattro nobili amici e le famiglie loro. Questi, arricchiti dal supporto dato alla comunità, non immeritevoli ereditieri, pregarono e dissero ai rivoluzionari che c’era del buono nel lasciar correre ed incanalare lo sviluppo in settori rispettosi. Il medio pensare avrebbe beneficiato in benessere dando favori agli illustri, ai giusti, ai competenti. Tale semplice discorso fu esposto ai bruti. I quattro credevano d’essere supportati nelle motivazioni dagli oggettivi fatti. La guerra andava fermata, inutile qual era, il vantaggio del neutro individuo rispetto ai tempi andati era palese agli occhi di tutti. Avrebbero di certo compreso e fermato il devasto. Attesero risposta, ma gli usurpatori non udirono, perseverarono nel loro intento sanguinario, regredendo in nome d’una libertà acclamata. I quattro furono increduli dinanzi alla reazione della folla. Così fuggirono verso l’oriente coi propri figli edificando una Torre dai mattoni neri, alta e fine, in stile del gotico, al modo di Babele e flessibile, assimilandosi al paesaggio rurale dei dintorni, murandosi negli interni e salvando tutto il possibile dei progressi avuti al proseguimento della storia, stringendo tra le camere il tecnico indispensabile, a lor detta, per una nuova alba di pace. Abitarono la Torre per molto tempo. Non v’era possibilità di dialogo con gli spettri deviati da inseguire cieca ed unica sete di sangue, placabile, forse, sol con l’attesa.
I quattro piangevano inermi, dannandosi di non poter far altro che aspettare la quiete. Inabili d’impedire lo scempio di milioni d’esseri inconsapevoli, lì rinchiusi tra le stanze di semi ombra delle false finestre, da sopra la terrazza che svettava in osservanza d’una valle sconosciuta, austera, dalle fitte ombre d’animali ignoti. Vetrate occultate che dall’esterno davano visione del nulla degli interni, ma la realtà nascosta tra la finitura della pietra ben levigata e scura era mantenuta dall’ingegneria delle capacità, delegata a quasi ogni possibile forma di tecnologia che quei quattro, tra le menti più brillanti del tempo, avevano con astuzia e linguaggio riposto con cura tra di loro, con lo scopo di sopravvivere e tentare un nuovo dialogo. Eressero come coordinatore d’azione, uno solo tra loro, il più illustre tra gli illustri, rispondeva al nome di Sabino. Quello diceva agli altri tre che sarebbero passate molte notti dacché l’umanità potesse rendersi conto dell’enorme perdita d’ingegno e conoscenza perpetuata in vocazione d’un ideale falso, dettato solo dalla pura pulsazione d’estinto che se non coordinata con l’intelletto, porta al decadimento dello spirito allo stato dell’esordio al creato, inefficiente e condannato. Intanto, dalla cima della Torre, ecco che la valle s’increspava all’orizzonte e v’era il mare. I fiori aromatizzavano le primavere dove l’erba diveniva spugna acerba, porosa, corrosa dal semplice ed amichevole contatto a pelle. Un mondo surreale, completato dalla misteriosa essenza d’una natura che mai sarebbe possibile associare alla concretezza della conoscenza limitata degli uomini. Che Sabino sorrideva agli inverni di lucentezza estrema; quando, dal cielo delle prima gelate, discendeva come un’aurea di puro assedio limpido a macchiare i lupi, abitanti del deserto, il cui pelo scuro si tingeva d’un colore biancastro di vernice viscida. I quattro, anime senzienti, pensanti nel logico, si chiedevano dove diavolo fossero capitati e perché avessero avuto l’estinto, in fuga, d’arrivare all’Oriente ed occupare la valle ignota. Vissero molto. L’obiettivo del preservo sembrò dargli più respiro del dovuto, non invecchiando, associati al culto della sapienza, pronta energia adoperata per comprensione dell’origine. Videro tanti dei lor figli e poi dei lor nipoti, nobili prescelti, seppelliti in terra del deserto dalle estati di brina, la cui pioggia cadeva in terra dolcemente con forma di dolce rugiada dal gusto pungente. Secoli, molti secoli, al non vedere più un uomo venuto dall’esterno. Elisa, terza nobile, studiava il suolo, il cielo, il mare, la natura dai risolti inspiegabili di quel luogo mistico dove l’edificio dalla notte, impressa in muratura, s’ergeva come essere a sé stante. Tito, secondo nobile, preservava il metallo degli interni della Torre, scrivendo byte su byte di dati, aggiornando i sistemi. Mora invece era alle tenebre, alle lettere, al linguaggio, coordinava l’umanità della sua forma classica così da mai dimenticare per cosa quei quattro ebbero avuto in dono, dalla coincidenza degli elementi, forse l’eterna vita.
Si convinsero i quattro d’essere stati attratti nella valle da una forza ancor non compresa, sconosciuta nella fonte, ma risiedente nelle pietre buie, trovate sparse nel deserto, che avevano adoperato per edificare la fortezza. Per Mora fu il male armonico, in forma grezza, ad averli aggregati a quel luogo tanti secoli addietro, ad averli reso ciò che erano, immortali, divini agli occhi della popolazione nella Torre, i quali crearono autonomi ecosistemi di sostegno alimentare, logistico, amministrativo. I quattro nobili però avevano danni, certo, nel loro insieme. Mora, ad esempio, su tecniche questioni, non era presa sul serio. Tito innovava, ma, agli occhi degli altri, peccava di troppa concretezza e poca pulsazione. Elisa dei fiori, sol col deserto era un tutt’uno. Sabino li teneva uniti, colmava carenze dei singoli e guardava dalla cima l’orizzonte ad ogni tramonto, attendendo. 
Venne il giorno infine, ed era tetro, più tetro d’ogni prima, più scura la terra e le sue ombre di veleno rivolte ai succubi d’un non riconoscimento nei riguardi del vero e concreto bisogno, vittoria d’ognuno. S’avverò la rivelazione in un solo attimo che la terra tremò tutta. L’intera valle si scosse in sgomento ed apprensione. Era un giorno della brina, la rugiada dalle nuvole biancastre e le cime delle montagne rivolte, calpestate e sovrastate da un’orda d’esseri ridotti a scheletri, cadaveri a digiuno, decrepiti, massa di deformi allo stato di nomadi in furia. Fu dato l’ordine alla popolazione della Torre di rientrare negli interni. Elisa professò sovvenuto il tempo di ridare all’umanità il domani degno, ma ripudiato perché non compreso e plasmare un nuovo domani più equo. Tito, felice, disse ch’ora li avrebbero ascoltati, finalmente, riconoscendo i propri sbagli ed accogliendo il nuovo avvento di metallo posto sopra soglie del classico, del vero della natura umana fatta scienza per forza. E fu vero, radioso il buio del giorno, illuminandosi l’orizzonte e di poco oscurando le stesse dune. La Torre dei quattro e l’ambiente ad esso associato si riflettevano in regole proprie, ed era tempo. Sabino pure entusiasta, sapeva che i figli cresciuti alla Torre, per quanto comprensivi delle nuove tecniche e progrediti nel sapere, istruiti nella visione occidentale del mondo, poco condividevano con l’umanità dalla quale i quattro discendevano e volle sperare in una pacifica risoluzione. Mora fu l’unica a rimanere immutata, i capelli bianchi le ricadevano alle spalle in linee sinuose bagnate dalla rugiada, disse di guardar meglio. Dalle finestre e dalle nere pietre tutti si sporsero nell’osservar l’orda in arrivo ai piedi della fortezza. Migliaia di passi battevano la terra. Certo, non eran solo ridotti allo stremo quelli, ma camminavano come quadrupedi, nudi, scagliandosi a morsi, insensatamente, contro i lupi, finendo cosparsi dalla sabbia d’orata e macchiandole delle loro cervella sparse al suolo dopo le mortali cadute dove i crani, fracassandosi, producevano un suono basso, di placche andate in malora e banchettavano i cani con l’epidermide dei morti, immobili, mischiavano i frammenti della polpa umana resa molle dai continui passi della folla di migliaia di creature del sangue che andavano a pressare le ossa, frantumandole e riducendole a polvere, mischiandola alla la bava dei loro musi. 
-Cos’accadde? -Chiedeva Sabino. 
Non furono da meno, gli uomini, le donne e pure i bambini, tutti lottavano ferocemente avversi alle belve, rispondendo ai solo stimoli della fame e della morte. Mora, dalla Torre, intrecciava le braccia, diceva che la tolleranza e l’etica erano ormai estinti in quelle coscienze inermi, che trucidate gli intelletti capaci alla logica secoli addietro, decimando domani, regredirono allo stato di molesta selvaggina. 
Bestie tra le bestie, insalvabili.
Gridavano feroci, lo facevano scagliando macigni su volti di donne inermi, insanguinati, a cui si mescolavano le carni dei fanciulli massacrati dalla marcia omicida dell’orda. S’associavano ai lupi e con essi divoravano i propri simili, ora deceduti in violenza, ora ancora coscienti nel vedersi morsicare da belve con schiuma alle labbra dove di materia umana non più giaceva alcunché. Fu come ai tempi delle prime guerre contro i padroni, ma ora v’era qualcosa di più orrido da osservare. La parola in loro era estinta, così come la ragione, il controllo, l’industria, la storia, evidente ch’ora d’eletti, di singoli capaci, non più ne avevano, solo la pura pulsazione primordiale, la più malata, informe, contorta, abominio in noi, mai venuto fuori alla luce del giudizio d’altri. Non più uomini, ma belve. Il volto di Sabino si ingrigì dato l’orrore. Cos’erano quelle carni putride che alle basse della Torre gridavano e graffiavano la pietra fino ad espellere da ogni orifizio fiumi di liquidi nauseanti, dal sangue ai muchi, al vomito d’ognuno acido a corrompere corpi piegati dal dolore che sopra altri pressavano crudeli? Mora quasi rise di gusto, mentre Elisa con Tito si stringevano come per riprendersi dal colpo di vedere tal malanno essersi diffuso a quel modo indomabile. L’orda bussava, spingeva alla pietra della rocca, vedendo i quattro, in cima, osservarli nella superiorità di dire. L’orda ruggiva furiosa dal basso, strangolandosi tra i frammenti nella foga, tentava d’entrare dall’ingresso della Torre dove i figli della comunità stavano rintanati non sapendo come agire. 
-V’è altro, sì, alcuni uomini oltre questa valle, non sono divenuti questo, non può davvero essersi perduta ogni decenza, noi possiamo curarli, possiamo ricondurli alla logica, no? -Chiedeva Tito ai tre in forte crisi di sensi, dal corpo riluttante scosso e teso come mai lo avevano veduto.
Calò il silenzio tra loro mentre la distesa infinita di corpi nudi ed avvelenati dall’odio continuarono l’assedio. 
-Discendono da generazione d’orde senza lume e senza Dio, dai natali avversi, selvaggi, venuti al mondo come selvaggina. Inebriati forse dall’odore della sapienza smarrita, seguendo il fiuto delle perdite, son giunti a noi.  -Mora abbracciava la recinzione della terrazza scura con espressione ignota, mutò i tratti, nessuno s’accorse di ciò.
Semi della vecchia umanità tiranna, della rivoluzione senza idee.
Elisa calò lo sguardo e assistette agli stupri. Le iridi smarrite nel vuoto d’inaspettata fine. La violenza insensata imperversare tra le bestie, come impazziti, inebriati dalla voglia di placare la loro fame di carne tumefatta e tastando la solidità dei mattoni scaraventarono gli infanti contro la pietra, devastandone i corpi. S’accoppavano nel mentre, infermi, salivano in groppa ad altri, molestando e morendo nella caduta, per poi venire deglutiti dai loro alleati.
-Noi possiamo salvarli. -insistette Tito.
Sabino, primo nobile per scelta dei quattro, pianse amaramente. In ginocchio maledisse il cielo e la Torre.
-Perché arrivare all’oriente? Che senso ebbe? Chi o cosa ci volle qui oggi?
-Quattro nobili preservarono il progresso in attesa del giorno in cui i disertori avessero deciso di riaccoglierlo. Il giorno è giunto, son venuti a noi, avremo una nuova stirpe, più giusta! Possiamo ridare luce! -Tito s’avvicinò al primo, Sabino gli pose le mani al collo.
-Guardali! -gridò.
Li disse rivolgendosi alla folla di selvaggi. Quelli mostravano a lui i denti gremiti di sangue e pezzi di membra, mentre il buio inghiottiva la scena, aprendo voragini alla valle. La realtà iniziò ad affondare incerta, immergendosi, trascinata violentemente all’abisso.
Sabino li guardò negli occhi, tutti e tre, e insieme capirono cosa fare. Tito, risentito, accettò destino. -Strana natura quella umana, essa ora ci si presenta dinanzi agli occhi al suo stato più puro e ne abbiamo disgusto. -Iniziò il primo nobile.
Attesero, tutti forse, in cuor di sapersi salvi avendo nuova speranza.
-Vano insistere ancora, apparteniamo alle belve.
Allora s’aprì l’ingresso della torre e i selvaggi fecero strazio della sua civiltà. I quattro si spogliarono e s’unirono all’assedio dei selvaggi. Stanchi di lottare, degenerarono nello spirito e nell’intelletto accogliendo il sangue. La Torre bruciò. I corpi inermi violentati tra i roghi fusi alle carcasse d’altri, l’orda si sparpagliò per tentar di fuggire alla caduta del regno. Quando allora l’ultima voragine fu aperta e iniziarono a precipitare tutti, una sola tra di loro ritornò nella posizione eretta, svettando in mezzo ai quadrupedi. Nuda, si pose al comando delle bestie e mentre la notte colò a picco dalla volta fondendosi ai resti della Torre e legandosi alla fossa d’origine, sprofondando, Mora, la vera prima nobile, sorrise sinistra, mostrandosi madre e natura.

Il Giudizio universale di Hieronymus Bosch, (1506-1508)


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