Trattato sulla vita di V. Alfieri, il viaggio frenetico e l’angoscia d’esistere. Storia ed Analisi di un’anima delusa 

Alfieri non ritrova un senso ad un vagare continuo nella ricerca d’uno spazio a noi destinato, giungendo alla semplice conclusione che tal gioia d’esistere nel giusto luogo non è dovuta.

Illogico pensare che esista un’eterna quiete in vita, tantomeno un angolo di mondo a noi assegnato dalla provvidenza che certo, se persevera, ha poca stima e premura dei suoi figli, dominandoli e destinandoli all’angoscia. Se, in un periodo preciso dell’esistere, si rinviene armonia in una terra bagnata dal mare d’oriente è, forse, solo merito d’una coscienza tanto assediata nel tempo trascorso, da convincersi, in obbligo, d’essere giunti al bene immutabile, eterno, ma illuso.
Il testo della sua vita cominciato negli ultimi anni, a Parigi, nel 1790, recita proprio l’insoddisfazione dettata anche dall’essere legato, d’strazione non richiesta, alla nobile e stolta classe d’Asti, in Piemonte, dove egli nacque in ricchezza, già predisposto all’ascesa. Un nobile che canta la pochezza d’una vita che va scissa in quattro: puerizia, adolescenza, giovinezza e virilità. Un cuore tanto blando, scettico, disilluso dalle origini che cerca d’estendersi altrove. Nobili classi in delineazione d’un futuro certo di materia e possedimenti, ma non di concreta conoscenza, non soddisfano il giovane Vittorio, cresciuto in ambiente ecclesiastico d’antico bigottismo in giudizio d’apprendimento della nuova lingua italiana, allora, però, solo riflessa nel torinese, e del più ricercato Francese, lingua universale del suo secolo. Aristocrazia sola abilitata ad ignorare è specchio d’una classe di governo fragile nelle scelte, orientata solo all’errore, al non buon giudizio d’élite. Alfieri odia tutto questo, odia il ceto suo, una sfera di superiorità insulsa in cui la sua stessa famiglia va collocandosi per semplice nascita, trascurando il bene superiore dettato dal sapere, padre d’un immenso piacere che presto lo attrae più d’ogni dialogar di nulla. Cosicché, egli rifiuta di partecipare a un disegno dell’ignorare, ricercando aria, nuovi motivi, un suo angolo di mondo d’idea di sua soddisfa, di nuova visione d’etica e vita. Denuncia la sua istruzione banale, non garantente giusti mezzi per affrontare qualsiasi cosa possa esserci oltre i confini del Piemonte. Matura, allora, desiderio di vedere con i suoi occhi tanta gloria osannata dai classici amati, lo splendore francese, le nevi del Nord, i buoni governi dell’estero, l’unità salda delle grandi nazioni rispetto alla fragilità della divisa Italia del tempo. 
Allora va, parte, è il 1766, Vittorio è venuto al mondo nel 1749, ha poco più di diciassette anni. 
Soffermarsi, però, sugli accadimenti dei suoi voyages è cosa da poco e di tutti. Credo che più grande sia l’analisi dei costumi d’uno spirito che non si sazia del mondo in cui giace, che vaga, di continuo, traendo orrori e disgusto per anche i saldi principi che la sua piccola realtà piemontese d’alto stampo aveva impresso, ingannandolo, in sua attitudine. Che l’Europa stessa è uno sconsiderato covo di guardie armate, l’occidente tutto occupato da re ignobili nel governo d’uno stato indegno, oppresso da una tirannia che non si palesa con la violenza, ma con la chiusura d’ingegno e degne norme, che non ode il popolo, ma lo domina dall’alto, dal credere che la corona discenda direttamente dal cielo, padre degli uomini tutti. Il moderno del suo pensare è palpabile in ogni riga, incredibile solo a pensarci, ed è immenso il potenziale del saldo essere consapevoli, da uomo d’ultimo settecento, d’uno stato umano indecoroso, sottomesso alla natura avversa d’altri uomini e donne, solo grandi dal prestigio di famiglie, stirpi, incarichi colpevolmente custoditi, non di certo glorie d’idee prodige pronte a far del reale un degno avversario del cielo in base ad espressioni vere d’equità e pace. No, ogni corte di quel tempo è figlia del privilegio annesso ad amministrazioni immeritevoli, di scarsa cultura e giudizio, e poi v’è l’Italia, appunto, frammentata, sola nel fronteggiare la grande Francia illuminista del progresso intellettivo, ed è lì, forse, la felicità che attende lui, che attende l’intero genere degli umani individui. 
Pietro Verri, a questo proposito, in tal periodo, s’interroga proprio sulla condotta delle virtù umane adottate al fine di perseguire la gioia, in risposta all’ecclesiastico Muratori delineatore d’una sì pace raggiunta con opere degne di Dio, ma se questa propria voglia d’essere in pace, che ogni buon’essere del creato ha immersa nelle sue forme, è sancita da opere di bene, a chi è rivolta tal premura? A Dio? Che i Dotti della chiesa, in continuo dialogo tra loro, contraddicono proprio i principi fondamentali ricavati dalle sacre scritture su cosa faccia piacere a Dio stesso e cosa no, allora se questa è strada incerta, forse la gratificazione del vivere sta nel solo essere utile all’integrità della massa; lasciar segno d’un passaggio, dar motivo di nuovo riflettere, progredire tutti nel nome d’uno solo di noi, non messia, ma carne, che sa dell’umanità e dei suoi difetti. Il bene fatto a tutti è bene a noi stessi, ma per poter ambire a tal fortuna, che è di pochi, è necessario alleggerirsi del peso d’essere nato in terra inefficiente, avversa, improduttiva, e trovare spazio altrove? Vivere come cittadini del mondo è possibile? 
Alfieri mostra altro, in un linguaggio di così tanto realismo, nemico poi, per certi versi, del prossimo romanticismo del secolo XIX, movimento volto alla creazione d’una sfera ideale adottando i canoni classici e superandoli per comporre un ipotetico reale di civile convivenza e quiete. Per Alfieri non v’è niente di gaio a tal punto da rendere sopportabile la sua aggressività ossessiva. I paesaggi Scandinavi che visiona son tanto desolati che scavano a fondo nel suo cuore affranto, posti ai confini d’Europa, ora intesa come unione moderna; neanche ciò da conforto, allora dove? Dove andare? È solo correre a vuoto? Sugli amori tormentati riposti alle attenzioni di donne sposate, il cui crimine d’adulterio è spesso punito convolando a duello, sono parti integranti del grande racconto dell’esistenza sua; per concluder poi, l’Alfieri, dopo molte peripezie, si stabilizza in sentimento con la nobile contessa d’Albany, il cui marito, scoprendo il tradimento, la sottopone a diverse e crudeli violenze fisiche. È l’apice d’una classe di possessione dei vinti, fragili nell’assenza di proprietà e delle barbarie non sanzionate dei falsi meritevoli. È il tempo del nuovo sviluppo del capitale inglese, del libero mercato, ma, fuori dall’isola, v’è un altro movimento d’immense vedute, più vicine poi al protagonista della nostra storia. La nuova mobilitazione globale sembra dar fede a tutte le riflessioni sull’odio dell’Alfieri provato per le origini e per il suo concetto d’autorità giusta.
È la rivoluzione.
In Francia, il popolo è in tumulto, la presa della Bastiglia è compiuta. Alfieri, in suo onore, scrive A Parigi Sbattagliato, è il 1789. Lo scrittore è testimone dei moti rivoluzionari; finalmente, prova ad essere partecipe della nuova veduta d’ingegno. Il lume predica cultura scevra dai canoni ecclesiastici e monarchici, se solo Galileo fosse nato due secoli dopo. Alfieri, però, è nobile, la rivolta va contro l’aristocrazia stessa, allora, i suoi beni sono sequestrati e le certezze crollano inesorabilmente. Egli non riesce, certo, a ben comprendere; è pur uno della rivoluzione, allora perché questo? Perché sancire la credenza, anzi, il più infondato pregiudizio che il ceto d’appartenenza condizioni, anzi stabilisca a prescindere, credenze intellettuali e ideologie dei singoli? Tutti gli aristocratici son tiranni? 
Alfieri condannò il pregiudizio per tutta una vita, aderendo ciecamente alle proprie convinzioni, ma non riflettendo sull’eventualità del dire che si rovescia dai vincitori ai vinti, che uccidendo divengono, quasi, come i lor tiranni. Fu come se le sue stesse credenze, maturate nel tempo, ora stettero a punirlo severamente per averle alimentate. Non era lui della monarchia, l’aveva rinnegata, ed è folle, nemico d’entrambe le fazioni, ora giace solo. Torna, costretto, in Italia, prima a Torino e poi a Firenze. Ci sono i suoi libri tra i beni sequestrati in Francia, forse, più di mille, non li rivedrà mai più interamente, riottenendone solo una piccola parte da Napoleone. È il 1803, Alfieri morirà a Firenze a cinquantanove anni in condizioni economiche appena sopportabili, smarrendo il titolo e l’immenso patrimonio, verrà seppellito a Santa Croce, morto da anima delusa.
L’esistenza è pessima per chi la vive d’illusione, come in seguito la bella Roma venne idealizzata da Leopardi che poi ritrovandosi immerso tra le vie d’una città non più quella di Traiano, respira amareggiato dalle sue credenze, illuse dallo splendore sancito dell’antico non più presente, scemato, in favore, d’una modernità di tal bruttezza, fomentatrice dei poi neoclassicismi di Foscolo e dell’Ortis. Guarda, v’è un senso, un’Italia, che disunita per così tanto, non intende i moti rivoluzionari; i grandi fuggono da essa, alla ricerca d’una vita di spessore, Alfieri è tra questi, loda la rivoluzione, la brama da sempre, dalle remote profondità del conscio, ma poi, quando sono il suo onore, la sua prosperità, ad essere intaccate, ecco che egli subito stende Il Misogallo, che letteralmente significa “colui che odia i francesi”.
«Io aveva riposto la mia vendetta e quella della mia Italia; e porto tuttavia ferma speranza, che quel libricciuolo col tempo gioverà all’Italia, e nuocerà alla Francia non poco.»
L’odio per la Francia è ora forte in Alfieri, seppur essa è lingua madre, patria delle sue muse. Quell’odio riverso all’aristocrazia insulsa e al suo ozio va poi a trasferirsi al popolo insorto, forte d’idee e valori, ma cieco; questo, mosso in violenza, pressa, schiaccia la nobiltà, facendo sì che ogni individuo ad esso associato, risponda ai sentimenti di sottomissione dei fragili e vizio. Alfieri è un sognatore deluso, che vede l’unità della sua Italia, che seppur voglia tanto sforzarsi di ripudiarla in sede, avendo visto il mondo fuori dai confini, questo lo ha risputato lì a Firenze. Il buio del reale è allora concreto in ogni dove, ciò spaventa e non poco, fa regredire ad un’idea di stato perenne di sconforto impossibile da sopprimere neanche emigrando altrove, abitando, pure, pezzi di reale a noi gradevoli, se ne esiste qualcuno, ma allo stesso tempo il respiro tormentato dell’Alfieri è motivo eccelso spronante nel non ingannarsi, dell’anti-romanticismo incantatore, designatore d’esistenza ideale, irrealizzabile, divagante nelle sue leggi. Idealizzazione del torto, del buio, acceca più d’ogni splendore ricercato e non va adottato come metro di giudizio del reale nostro.
Alfieri inorridisce dinanzi al sangue nobile sparso violentemente dal Terrore Francese. La rivoluzione va fatta in giudizio, dall’alto, in forte dialogo e premura. Un’anima sensibile divinizza l’indole umana d’accumulare e tormentare per suo tornaconto, però, poi, cederà al male della sua illusione, quando questa, ingannevole, si paleserà dinanzi ai suoi occhi. Il popolo in rivolta per sua prosperità oppressa, calpestata dagli albori, non ha modo di distinguere il giusto tra le file dei suoi nemici, Alfieri lo condanna per questo; anzitutto maledice, nella sua interezza, lo stesso cielo, colpevole d’inerzia dinanzi alle uccisioni illogiche, dinanzi alla malafede umana, all’odio esteso a tutta una stirpe d’antiche monarchie tiranne, senza distinzione alcuna. 
Esiste un luogo per l’Alfieri capace di dargli pace? 
Quel senso di viaggio, che da lui, per la prima volta, diviene pura necessità, contro la credenza del gran Tour di quegli anni, dove figli della vecchia aristocrazia europea adottavano itinerario oltre confini solo come svago, alla ricerca di controversia malizia per l’accusa dei modi stranieri. No, l’Alfieri è così grande nella sua complessa sensibilità non conforme al tempo, che va oltre, sancendo maniera dei prossimi secoli d’essere parte d’un disegno di limiti non ancora delineati a pieno. Egli è l’ideatore del nuovo intendere il Viaggio, come necessità umana e non come svago. Dal buio della genesi, tormentatrice, alla luce della degna convivenza, del rispetto e dell’intesa di saper sì distinguere buona arte e buon governo. È l’Alfieri che da nuove predisposizioni per contemplare il reale in altro modo, come madre degna d’analisi, con la colpa di credere ogni bene in sua forma, ed è bello, come anche è degno di noi, di lei, il respiro è degno di ricercare sua mole altrove. Idee venute in collisione danno natali al bene. Noi, anche col merito d’essere delusi da essa, dalla terra, dalla desolazione dei suoi paesaggi cantati falsamente in odi antiche come patrie di valori e miti per poi esser svelati come solo ombre di ciò che furono. Noi che crediamo che vi sia più luce al mondo, più gioia di quanto in realtà esista. Anticlassicismo esteso al progresso, alla vigilanza dei vecchi canoni composti d’altri; viverli, capirli, adoperarli se ritenuti meritevoli, adoperando scienze. Noi delusi da Roma, da Parigi, da quelli che tali vanno reputandosi giusti trucidando in malattia e poi con le forme di buon governo rivelatesi non eque. Eppure, sol così è vita. Una natura non perfetta è più vicina all’umana indole, d’ogni artificiale perfezione classica ricercata a forza lì dove non può essere presente, perché ricercata tra parole delle Filippiche, narranti del mondo d’incesti e malaugurio, malato perché reale. Occhi attenti non sopprimono anime sensibili come quella del buon Leopardi, ma le completano in analisi, preservando la quiete sperata da possibili complicazioni d’una sincera delusione in ogni ambito di sapere e pulsazione. Desiderare una coscienza in frenesia, vivace, amabile, sincera nella stesura di coscienza, con voglia di comprendere e sentirsi apprezzata, di dare forza, d’apprendere e morire col la gloria d’aver dato. Dare meriti ai degni d’utilità, forti nel sapere, è buon modo per progredire consapevoli. Alfieri è l’esistenza nelle sue brutte sfumature. Il male martoriato non compreso è morte per l’integrità nei secoli perpetuata, voluta, amata. Alfieri è la necessità di noi tutti d’andare via un giorno e poi tornare e poi lodare ideali, ripudiarli, esserci, amare, odiare, gioire e perire in giusto, in errore, in veleno, ricavando non un ruolo d’intenzione, ma unicamente essendo ciò che siamo, liberi di mostrarci ingiusti, contraddicendosi, mai cessando di chiedere tanto per noi stessi e imparando dal mondo alla ricerca d’un senso.

Vittorio Alfieri ritratto da François-Xavier Fabre(1797), Palazzo Alfieri (Asti)


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