A C.Pavese, L’egoismo d’un popolo che è tornato a guardare indifferente il mondo cadere, rintanato in su la vetta d’una casa in collina. Come il benessere e la neutralità conducono al più atroce rimpianto. 

-Non sei mica fascista?- mi disse.
Era seria e rideva. Le presi la mano e sbuffai. -Lo siamo tutti, cara Cate,-dissi piano.-Se non lo fossimo, dovremmo rivoltarci, tirare le bombe, rischiare la pelle. Chi lascia fare e s’accontenta, è già un fascista.

(da “La casa in collina” di C.Pavese)

Sulla Torino devastata dalle bombe del 43’ e a Corrado che indigesto, muto nel pentimento dell’abbandono, si rifugia sulla collina del suo ancora, quasi ossessivo, perseverare sull’unica tutela di sé stesso, lì, al sicuro, dove la vita scorre limpida in solo senso di tutela e granate dal cielo sprofondano al basso, in città, distano tanto da non colpire la retorica. Oggi è tal irriverente popolo, dopo esser disceso a valle al fine della restaurazione del 45’, ad essere tornato ad abitare la cima in su alla casa in collina da Corrado, origine del tema neutro.
Al sicuro, il benessere confonde l’intenzione.
Il lusso che rende, ad oggi, ingrata una stirpe d’Europa intera confortata da quel che è stato, ora resa inabile nel riconoscimento di plateali attentati alla libertà sua messa a rischio lì al confine, tal che è la pace sola ad essere divenuta tanto scontata negli anni, sedimentata nel cuore di chi combatté allora per fondarla e tramandarla poi, tanto presente in questi indegni decenni da reputarla, da nuovi discordi pezzi d’occidente, ora dovuta, ora non difendibile e scontata. Questi restano ad osservar equanimi finché, certo, il loro personale erario non rischia ripercussione d’alcun genere.
Etici per condannare l’assalto, ma timorosi per, concretamente, tentare di debellarlo.
Forse, è l’ascesa dei nuovi eccidi; è giusto crederlo? E se questa è l’ideale condotta dei più, senza voglia d’almeno discutere, una volta caduti, sapranno risollevarsi come un tempo fecero i loro predecessori?
Pavese scrive la storia di Corrado nel 48’, la guerra è finita, ha perso molto, forse troppo, si condanna, autonomo, colpevole; forse, lo stesso conflitto che ha investito l’Europa senza neanche aver tempo d’armarsi, lascia un segno indelebile nella sua audacia letteraria, non mai più in grado di risollevarsi per ancora rivolgersi ad un’alba nuova.
V’era, allora, un paese intero da ricostruire, una cultura da riformare, un odio d’insieme da placare, ma il disagio è troppo. Dall’ultima pulsazione non ricambiata, Pavese si toglie la vita a Roma nel 50’ ingurgitando troppi dei suoi sonniferi. 
Non sopporterà mai più ulteriori rimorsi, né altro male. Egli è salvo.

«Posso dirti, amore, che non mi sono mai svegliato con una donna mia al fianco, che chi ho amato non mi ha mai preso sul serio, e che ignoro lo sguardo di riconoscenza che una donna rivolge a un uomo? E ricordarti che, per via del lavoro che ho fatto, ho avuto i nervi sempre tesi, e la fantasia pronta e precisa, e il gusto delle confidenze altrui? E che sono al mondo da quarantadue anni? Non si può bruciare la candela dalle due parti – nel mio caso l’ho bruciata da una parte sola e la cenere sono i libri che ho scritto. Tutto questo te lo dico non per impietosirti – so che cosa vale la pietà, in questi casi – ma per chiarezza, perché tu non creda che quando avevo il broncio lo facessi per sport o per rendermi interessante. Sono ormai di là dalla politica. L’amore è come la grazia di Dio – l’astuzia non serve. Quanto a me, ti voglio bene, Pierina, ti voglio un falò di bene. Chiamiamolo l’ultimo guizzo della candela. Non so se ci vedremo ancora. Io lo vorrei – in fondo non voglio che questo – ma mi chiedo sovente che cosa ti consiglierei se fossi tuo fratello. Purtroppo non lo sono. Amore.

Il rimasuglio d’una massa post-conflitto devastata, però rimasta al mondo, vive, cammina tra le macerie, risorgerà, compirà l’impresa, ma il processo è tutt’altro che breve e di facile attuazione. Quel che è certo è che non v’è spazio per ancora rivolgersi alla cattiva arte, ai beceri pensieri. Urge competenza, urge talento, si necessita d’unicità, e queste vanno, costrette, coltivate tra il tormento dell’eredità delle battaglie falsamente imputate al tramonto.
Il tempo avverso è padre d’uomini dediti all’obbligo d’adottare ingegno per declinare sorti d’un domani tetro come mai lo è stato fin da allora. 
È il tempo in cui Calvino si diletta giovane coi suoi nidi di ragno, il racconto dà mezzo d’osservare la morte da altri occhi, quelli del fanciullo Pim, reietto, troppo ingenuo nella sua fanciullezza per essere parte dell’adulta convivenza col terrore dell’eclissi; sarà proprio Pavese a riconoscere la grandezza di quel ragazzo nato a Cuba nel 23’. 
In quanto generazione della obbligata restaurazione, poi, segue linee coerenti di decisione, alimentando il dibattito intellettuale che s’anima sulla scelta di qual grande blocco adottare per meglio intraprendere una via di pace e prosperità; v’è l’oriente sovietico e il fronte americano, null’altro è rimasto. È il tempo dei quotidiani, sul Politecnico del 45’Vittorini dialoga con Togliatti, hanno idee diverse sulla prossima cultura e soprattutto sulla figura e il ruolo del nuovo intellettuale; il disaccordo è troppo per resistere uniti, Vittorini è allontanato dal PCI. Forse, Pavese, s’avesse potuto esporsi, avrebbe optato per il blocco americano date le sue passate ed appassionate traduzioni del Mody Dicky di Melville, del Riso Nero di Anderson e tanto altro di provenienza USA.
Dopo il 45’, l’Italia, comunque, nella sua integrità di massa uniforme e frammentata portante il fardello della recente unione, è discesa tutta dalla collina, con desiderio esplicito di ritrovar dentro la motivazione d’intervenire, anche se ormai lo fa al compiersi del disastro, quando resta sol da contar le vittime. Prima era lì dove, rifugiata, stava a guardare i totalitarismi esporsi nelle barbarie. È che il coraggio di tanti padri, riportati al senso collettivo dal crudele rimorso, e forse, leggendo Pavese, abituati all’indifferenza, all’egoismo di ricercare i propri unici interessi mettendo in secondo piano quella della comunità, si riarmano. Prima i partigiani scacciano i fascisti e i repubblichini; è un movimento, però, di poche anime, pervade il senso della neutralità nel popolo, poi si procede con l’idea della nuova Europa unita come vero antidoto.

– Esser qualcuno è un’altra cosa, – dissi piano. – Non te l’immagini nemmeno. Ci vuole fortuna, coraggio, volontà. Soprattutto coraggio. Il coraggio di starsene soli come se gli altri non ci fossero e pensare soltanto alla cosa che fai. Non spaventarsi se la gente se ne infischia. Bisogna aspettare degli anni, bisogna morire. Poi dopo morto, se hai fortuna, diventi qualcuno.

(da “La casa in collina” di C.Pavese)

Essere qualcuno costa quasi tutto, chi è deciso ad intraprendere la via d’arrivo? Fatto sta che tale bestia lesionata, il mondo, al tempo, era, sì, sprofondato in voragini neanche comprese nel pieno delle tonalità, ed ora quella generazione necessitava, obbligatoriamente, d’azione ed immaginario per poter quantomeno sperare di garantire un domani alle prossime in venuta e conservare la tregua.
Ed oggi tali norme sono rimaste efficienti allo scopo? Io le vedo disgregarsi inermi.
È quello il senso, l’arrendevolezza d’uno solo, come Corrado, ad essere conteso tra indecisioni e rimpianti perché sensibile, ma tanti ancora d’etica loro ne hanno sì poca o non tal complessa da garantire sani rimorsi e per loro, in epoca di ripristino mondiale, non v’è spazio. Comunque, è la pluralità ad esserci, ricostruisce, rinsalda e sogna un benessere che sarà, sperando, definito da qualcuno o qualcosa lì disperso al nuovo millennio. Ora quel millennio è venuto e passato; come Pavese lo giudicherebbe dall’alto della sua intraprendenza culminata al dolore più intimo, condotto fin all’estremo del non più ritorno al respiro? Uno spirito tanto retto negli ideali da condannare la sua sola codardia, crollante al pensiero d’aver perso, senza ritegno, tutto, e riflettendo su di sé, data tanta onestà, l’angoscia del non aver modo d’aver parola, d’aver maniera d’esserci per chi ha merito, d’influenzare le sorti della guerra e della pace e dell’imminente futuro, e poi in Corrado, suo personaggio d’intima e fedele estrazione. Forse è tanto crederlo tale, un ingegno di passione complessa, dove il moto di logica agisce invano per la comprensione del pulsare, come tornato, in ultime battute, ad interrogarsi sul più banale dei propri aspetti, proprio come fa un bambino che non tanto di sé può conoscere. Un mito nell’ascesa al lume tanto lucido da darsi morte ed i funerali svolti senza grazia perché suicida ed ateo. Non so dire se tanto alto, discrepante, illogico, è il giudizio; sappiamo, però, che certo, i testi e le parole d’eleganza annesse a storie sincere emozionano al punto da rendere i creatori martiri d’una vita che non dà abbastanza e questo può offuscarne la valutazione, ma d’altronde, l’intento dell’analisi non è certo stipulato per classificazione, ma per condanna del presente ancor salvabile, meglio per unico disperato grido d’aiuto. Non so certo interpretare i pensieri di quei ragazzi tra le città distrutte del 45’ e siamo capaci solo d’immaginare l’ideale insano, o forse puro che sia, ad aver decretato la fine di Pavese. È certo che la collina, sicuro locus, distante dal clamore del dolore di quegli attimi, nei decenni successivi, era sì rimasta disabitata; tutti spiriti, quelli d’antica fermezza vincolata al muoversi per non perire, ad essere fuoriusciti dai nascondigli loro per combattere la nuova guerra alle parole d’infamia, alla cultura dell’odio, adottando le nozioni dei migliori. Il trionfo venne dopo; Corrado, forse, era tra di loro, perché avendo fatto pace coi propri demoni, fu poi in grado di riporre da parte la propria imparzialità egoistica per unirsi alla lotta e migliorare in intelletto ed azione; è bello crederlo. 
Nasce l’Europa, o almeno ve n’è l’esordio tra le fantasie, il sogno di tanti, l’unione in difesa dell’armistizio, ed ora in che stato giace?
Oggi la frammentazione è evidente, la ritirata è totale, il consenso della popolazione rifugiato in su alla casa in collina, non partecipe al dibattito, incurante del resto se non che per prosperità dei singoli, compone una debole classe di governo, arrendevole, non chiamata alla crescita d’ingegno e d’argomento, di tema e degne norme, ma di consenso insulso, accusante l’ozio di tanti lustri passati in quiete; che ora la libertà è dovuta, chiesta ad altri, all’astratto, che quando minacciata è momentanea lesione, destinata ad estinguersi col tempo. Basta rifletterci per comprendere l’insensatezza di tale convinzione. Torna Corrado al tempo del 43’ e la sua neutralità in condanna di tutti, che ancora più grande è quando si palesa nel momento del bisogno in apertura del dialogo, della voglia almeno d’arrivare al punto, affrontar la crisi. 
Unita l’Europa nei moduli, è divisa nell’azione. 
Immagino i padri delusi, ma tanto valiamo poco nella scelta, nella difesa.
In su alla vetta dell’altura Corrado s’è protetto dalle offese, tardando corporale la sua dipartita, ma giacendo passivo, inetto al soccorso, alla resistenza, s’è corroso lo spirito a tal punto che non sarà mai più lo stesso, né più in grado di percorrere a testa alta l’esistenza fino all’arrivo, né più in grado di sentirsi quieto e privo di rimorsi, né di rincorrere ancora una volta l’amore per Cate, né d’affrontare il mistero delle origini del piccolo Dino ora che s’è unito ai grandi Partigiani
È questa l’aspirazione?
Ogni maschera che interpetra Pavese sa del disagio sentito alla consapevolezza di poter far poco per difendere questa pace posta oggi al baratro, perché tale l’idea stessa d’avvertire del prossimo eccidio è ingannevole, neanche merita riflessione in merito, è solo pessimismo infondato. Più facile è sottovalutar problema che riconoscerlo come tale.
L’insoddisfazione perenne di valere poco in voce della difesa è estenuante, insopportabile. La consapevolezza di non poter far nulla per almeno tentare di placare l’assedio, prima di tutto è incapace d’alleviare, anzi proprio esaspera, l’intimo, l’etica di chi si sente parte d’una natura a cui deve qualcosa. Anche solo l’egoistico fine di lasciar segno al mondo per propria gloria è più nobile di voltarsi e riguardare ossessivamente se qualcosa di proprio, del privato possedimento, s’è perduto nell’attraversare. Pavese di tale torturatrice pulsazione ne è perfetto oratore e con tale dedica al reale del neutro, avverso all’azione, alla riflessione e di conseguenza al sano sviluppo di progresso, professa proprio quanto l’atteggiamento del tempo, del non far nulla, appunto, neanche in fede d’adottare parole è, a detta del rifugio della nostra storia, stare con la Tirannide; null’altro può mitizzare il poco rispetto adottato per sé stessi in primis e per le sorti dei più. Pavese era di troppo, forse; cuore inutile in un regno di necessità d’ambire al nuovo del restauro, improduttivo per la causa con all’interno del suo involucro tutti i complessi d’una vita creduta non ben spesa. L’ultimo con tremore d’anima, ancora posto a giudicare la sua condotta, ad aprirsi al giudizio d’altri e son sicuro che andò domandando cosa pensasse il cielo del suo lavoro così da dare anche a lui stesso una prerogativa, un giusto mezzo per guardare il proprio riflesso per elogiarlo o maledirlo a seconda del caso, ma poi quando, forse, fu consapevole di quanto indottrinato ed immorale fosse un’ipotetica valutazione del suo ardore richiesta ai molti, fu restio nel proseguire.

«Perdono tutti e a tutti chiedo perdono. Va bene? Non fate troppi pettegolezzi»

(Scritto prima della morte)

L’ultimo affine ad ideali a lui cari, ma umano fino al midollo date le continue contraddizioni in merito ai concetti fascisti e non. Gli ultimi quaderni, infatti, hanno scatenato una divisione netta tra i suoi storici sostenitori che da sempre hanno definito lo scrittore associato unanime ad un pensiero concreto d’anti-regime; errore comune commesso nell’analisi dei testi volto ad esaltare e ad elevare comunque un’anima che tanto rimane confinata in un involucro d’errata limitata carne e nevrotico intelletto. Lo sbaglio d’idealizzare ogni virtù ed essere, associarli perennemente a un precisa voce, idea unica, porta a maledire e sminuire erroneamente.
Proprio l’amministrazione, seguendo tal riflettere, è ora proprio abisso dello scarto, accoglie con leggerezza l’interezza della banalità, i campi del sapere su d’essa non si concentrato, vagano indifferenti perché rigettati, ripudiati dallo stesso vertice d’amministrazione che finché in pace, di competenza non ne è in ricerca.
Smettere d’interrogarsi sulla propria condotta, quando tali s’è al sicuro, è arrendersi dinanzi all’evidenza del proprio poco valore di giudizio perché, erroneamente, s’è portati a pensare che tale libertà di rifletterci è dovuta per l’eterno, tal che è reso giusto non dialogare ora e riservare la parola quando s’avrà il crollo. 
Agiamo ora.

«Ho lavorato, ho dato poesia agli uomini, ho condiviso le pene di molti», e «Ho cercato me stesso»

Un popolo disinteressato, avvezzo solo ai propri egoistici bisogni, rintanato distante dal male, disunito, decreta tempi bui.
L’idea madre, appunto, che Pavese esterna con la sua casa in collina, maledicendo sé stesso perché, con grande coraggio, s’è cimentato nell’impresa ardua di guardarsi dentro e rigettare trovandone marciti gli interni, è che il senso di neutralità riverso alla vita, porta, inevitabilmente, al più atroce rimpianto.

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