Storia del riflesso di piaghe e note sulle orride ulcere

12 ottobre
Dagli studi esercitati in vita, posso, sì, garantire d’essere riuscito a domare la prima pulsazione dalla quale, son venuto alla convinzione, tutte l’altre vanno definendosi, erompendo da una fonte unica, e che in fine, se vinta è l’origine degli impulsi, questi tutti, repulsione, stupore, gratitudine, in essa convergono, come poi spegnendosi per l’eterno. 

È l’orrore il primario strato da maledire per corrompere ogni insulso senso e annientarlo al fine di stabilr, finalmente, per l’uomo nuovo, la vera ascesa all’autorevole primordiale logica, quella incorrotta da ogni falla della terrena e putrida sensazione che ne frena esponenzialmente il potenziale. Non più ingegni condizionati de delusione, ego, dispiacere, sottomissione, o dall’affetto provato per esseri a noi affini. Sol cinismo mirato ed esteso a lavorar per la massa e i suoi bisogni, annullando l’incerto. È il solo senso di terrore, che se estinto, è in grado di dar modo alle stirpi neutre di tanto rapidamente progredire per sancire un nuovo domani di buon comando, giuste norme e termine d’ogni disordine, delineando un reale di stabilità e quiete. Tanto ho, sì, ricercato il giusto mezzo per sradicare, con forza, ciascuna sensibilità dagli individuali involucri, esponendone l’inutilità. Elevarsi all’assoluto dell’estrema neutralità verso le “necessità dei singoli” per definire azione prosciolta dal contesto d’esistenza di chi l’esercita, così da liberare l’uomo dal governo dei propri impulsi.
In conclusione, la miglioria dell’umana efficienza è un corollario della definitiva disfatta d’orrore e di tutti i sensi che a lui son figli.
Ora che la mia teoria è esplicitata su queste pagine, passiamo a illustrare i grandi risultati da me solo ottenuti in sua dimostrazione. 
Ora che tanto non so più in grado d’avvertire né odio, né, appunto, orrore in me, m’è svanito come il senso dell’esistere tutto, venendo coinvolto, a mio obbligo, in un mondo dal non sapore acre, esente da ogni definizione dubbia d’amore o follia; dove l’ingiusto, dal mio osservare, è facilmente individuabile e mi permette di impersonare la miglior giustizia, quella neutra. 
Tuttavia, non è abbastanza; così ho deciso di trasferirmi altrove per continuare le mie ricerche con lo scopo di sottoporre la mia psiche al devasto indegno d’una terra malata che vien cantata dalle lodi del maligno e vedere se davvero son salvo dal disgusto. Se non trovo orrore in su agli inferi dove sto recandomi, allor son certo d’essere ora divenuto altro, più che d’una bestia, più d’un uomo. Un vero spirito di ragione or tanto vicino a Dio e alla sapienza della gnosi, con l’intento, ovvio, di sottrargli potenza una volta giunto al cospetto suo e condividerla con la mia gente.
Continuerò la mia storia una volta stabilitomi nella nuova sistemazione. 

30 ottobre
Le ombre son frequenti qui ad Apleda. Le leggende narrano chiaramente di come tutti questi esseri delle alture siano legati alle brutali origini del primo astro ed ora, decaduti in favore dell’umana diffusione, solo in questa terra perdurano, sopravvivendo nel contenersi il sangue di sconosciute belve tra i monti d’incesti, qui dove è palese l’aria del mito e della condanna.
Ad Apleda m’attende il trionfo.
Sapevo di trovare il maligno qui e giuro che ogni sua forma da me è supportata con enorme successo. V’è solo un ultimo ostacolo, un ultimo nemico da abbattere, un ultimo senso d’orrore da debellare; è il riflesso di piaghe. Ella mi tedia ancora per quel poco da mettere in dubbio le mie convinzioni. Non so cosa esattamente m’appaia dinanzi, tenterò di dar ordine ai miei pensieri, descrivendone i pochi tratti.
Al vetro della mia stanza, appunto, v’è uno spettro ad incutermi ancor tormento a volte. Posso io soggiogarlo come con ogni spirito delle malate origini? So che sono più d’ogni creatura alla terra, so che in me v’è un qualcosa di straordinario, ma che ancor non splende nel pieno della sua armonia. La figura espressa ad ogni mio tentativo di riflettermi allo specchio è tale orrifica dacché ogni notte ella m’appare temprata d’un immoralità antica, risalente ad ancestrali ere di molestie, decrepita più d’ogni immaginazione. Celando la mia immagine, ella m’osserva nel silenzio. In me v’è frenesia fomentata dalla mia assurda e malata voglia di ricercare perenne il dolore più feroce per quel poco da sapermi ancor in grado di provar qualcosa e proprio la convinzione d’essere ancora tanto fragile m’abbatte ogni volta. È una storpia ombra, ma di malata carne, spirito stremato in violenza ossessiva, creatura d’un male d’atrocità le cui membra lacerate emanano un fetore di decomposizione insostenibile, la cui pelle decaduta si squama lasciando visibili tessuti ormai marciti del tutto. Ulcera d’uomini ed imperi. Cos’è? Chi è?

1 novembre
Ricerco il senso di meglio definire i natali del nefasto essere a me associato con l’ovvio tentativo di narrare memorie per analizzare il modo in cui m’accingo a condurre l’esistenza a me affidata e mai richiesta e delle sue visioni annesse o meglio convincermi della lor insana voglia di rendersi reali malori e non mie contorte fantasie, prodotti d’una psiche ormai non più lucida per il senso umano, ma viva, abilitata razionalmente per svelar vero motivo al mistero d’esistere ed essere pronta ad appartenente non più ad un uomo, ma un astro nascente. V’è un riflesso allo specchio, insomma, che non m’appartiene, ma sembra a noi legato. S’immedesima in deformità ancor da me non vissute, non vedute, non affrontate, in su la casa stanziata tra le alture della cittadella a cui m’affidai un giorno per fuggire, o almeno tentar di farlo, dall’incertezza dei miei studi resi sconclusionati dal primo momento in cui ella si palesò in dimostrazione di quanto ancor sono legato alla mortalità dell’incertezza e alle sue nefandezze. Spero che scrivere brevemente di Apleda, il villaggio sorto in questo luogo di malombre, dove io decisi d’aver dimora per perseverare nello scopo della documentazione della forza raggiunta, possa aiutarmi a decifrar l’enigma. Le notti in campagna sono lunghe, oscure, la selva incolta ha l’abitudine di ghiacciare spesso e la mia solitudine nel tetro dell’inverno vissuto ad udire ululati di bestie, stanziate in su alle vette, tanto m’opprime in ogni mia singola iniziativa di mitigarla. L’unica abitazione a poter essere alla portata delle mie condizioni finanziaria è questo becero edificio dalle mura sbiadite, disperso tra le pendici in isolamento, tanto distante da ogni forma di contatto d’uomini, perché, certo, d’umano non v’è rimasto nulla immerso nell’eterna nebbia acida che sembra avvolgere il rudere e annunciarlo tempio d’atrocità, protettore d’un incognita prima non mai svelata. La padrona di casa è una vecchia zotica, stanziata comunque lontano dall’agglomerato di poche case, ma avente tutte le caratteristiche anomale degli infermi abitanti di Apleda. Questi, infatti, mai abituati a dialogare con stranieri, adottano tutta una serie d’insolite usanze come il non mai incrociare lo sguardo con l’interlocutore ed il tono di voce tenuto a freno che sentenzia basso assumendo tonalità ingrate nelle donne e minacciose negli uomini. Dialogare in tal modo, a lor detta, è necessario per non disturbare i riflessi e le valanghe da loro provocati e poi hanno tutti corpi offesi da vistose lacerazioni rossastre, tutte iridi sanguigne, veementi, pulsano nell’irrispettosità. I difetti fisici degli abitanti di Apleda son evidenti, quali rigonfiamenti su fianchi o schiena, a volte tanto pesanti da far si che il soggetto si pieghi sotto il proprio peso. Ho letto delle implicazioni d’epidemie nella zona, ma la sanità nazionale non esplicita nessuna pestilenza ad Apleda e dintorni. La vecchia dice, mostrandomi le sue piaghe, che tutti qui in paese son figli d’una madre tormentata che s’accoppiò, compulsivamente, coi propri figli prima di trucidarli, farli a pezzi e ingurgitare ogni pezzo. Proprio qui dove i riflessi degli specchi sembrano essere sacri, venerati ossessivamente, v’è la mia sfida. Non so altro di questo luogo infausto.

2 Novembre
Abitando tra le increspature glaciali io ardo nel ritrovare l’angoscia, ma, paradossalmente, spero di non percepirla mai più, dimenticarla, in conferma della mia teoria. Poi ho il timore, che in shock incontrollato, l’orror possa decretare il trapasso e che le mie ricerche possano rimanere eternamente incomplete, sancendo profonda perdita per ogni buon futuro intento, ed è questo pensiero che, davvero, m’addolora più d’ogni altra cosa. Nessuno ai nostri giorni possiede tanta acutezza d’ingegno da tralasciar il pregiudizio per dedicarsi a completare il mio lavoro alla giusta maniera. Spingermi così all’estremo in nome d’una conoscenza che in me, come in vecchie storie gotiche, brama d’essere appagata, comporta enormi rischi. Spesso mi chiedo quanto sia io disposto a immergermi in tal molestia. Inoltre, mi domando se esista un limite, lì dove, ai viandanti, il ritorno non è concesso. 
In seguito al decesso son convinto d’una quiete. Oltre la vita sento solo clamore del buono e quindi, ancora giovine, esisto bramando ogni sfumatura del delirio perverso che quel maledetto riflesso mi provoca quando di me si fa beffe. Benevolente sarebbe, in mia visione, la morte.
Il motivo per cui m’interrogo sulla storia della creatura al vetro, più atroce e martoriata d’ogni Aplediano, è anche perché son convinto che ella solo deriva dall’abisso d’origine ed è madre dei dannati alla terra, gli altri vedo che son tutti carne e lavoro. 
Ebbrezza del sapere è mia linfa, null’altro mi fomenta nel proseguire. Devo solo aver male per davvero e sarò incline a resistere al nemico, ma questa non mi parla. Le dico d’uscire dallo specchio, di dirmi cos’è e cosa cerca. Io posso sopportar il tetro del suo vissuto, adornare con lesioni e bruciature, forse, ancora di più il nero del suo corpo infestato da piaghe, ma lei deve comprender quanto sia io disposto a tutto pur di impormi contro il male suo, che dalle sue ulcere s’erge. Sembra sorpresa del fatto che io tanta rimanga impassibile dopo aver rigettato a causa del puzzo tremendo che impregna la stanza quando si materializza l’avanzata decomposizione in atto che le tormenta i fianchi, il ventre ed ogni lembo di pelle; quando quelle orbite solo vedo essere adoperate da vermi di viscide specie come lor rifugio, formando colonie, immergendosi in quel poco che rimane degli aperti piccoli fori dell’epidermide o adoperandone altri, scavati apposta dalle bocche dei parassiti, le cui uova son certo presenti in ogni orifizio della donna. Di quel corpo s’è fatto scempio immondo, poco son visibili ancor le fattezze. M’assopisco con lei ad osservarmi rigirarmi in preda ai miei deliri, ad incubi d’ogni genere rivolto all’ennesima visione astratta di storpiati corpi in fila a darmi piacere. Son convinto si tratti d’una donna, certo, ci son ciocche di bianchi capelli sparsi per il cranio lesionato e le esili forme seviziate non lasciano molti dubbi. 
Ecco la chiave. Ora che la individuo, lei più non mi fa orrore, posso convincermi di questo.
Io ovunque prospero senza aver danni ancora. Rimango in cima mai crollando. Son parte attiva della gloria d’ancestrali giganti, mi faccio guida della realtà bestiale a cui mi son rivolto per affronto ed ora pena mi fa lei, che tanto sputo al suolo della soglia dell’entrata gridando allo specchio, che di giorno rimane vuoto; che ora neanche più mi tormenta quel poco da sapermi incline ad esistere ancora, smettendo, ancor una volta, di sentire lamento ed ossessione. Forse ho vinto. L’assurdo tanfo m’attraversa, ma neanche più arretro. Vomito un’ultima volta. Tutto l’acido delle mie viscere si riversa alla lastra riflettente e lei da lì fugge senza più far ritorno. Il riflesso di piaghe è battuto, nulla potrà più darmi orrore.
Non ho più motivo di restare ad Apleda
Due giorni appena e ritornerò in patria per celebrare il trionfo.

3 Novembre
Riporto il dialogo d’oggi.
-Oh, tu hai ossessione. -mi parla la vecchia usuraria mentre le cospargo le piaghe d’un unguento viscoso e verdastro, celando la decadenza del corpo febbrile.
-L’ho per il dolore, sa che lo ricerco estenuamene e neanche l’incesto dei villici d’Apleda, torturati dalla lor viscidume indegno, riesce a soddisfarmi. Ho domato l’orrore, raggiunto la suprema sapienza. -le rispondo.
-Se ricercare atrocità è tua perversione, ora come vivrai senza essa? -mi chiede la vecchia.
– La mia vita tutta è riversata al sapere ed ora sono tanto vicino alla dimostrazione della mia teoria che del mio benessere poco importa.
-E che mi dici del sacro riflesso, il tuo non t’aggrada?”
-M’aggraderebbe di più saper, per certo, chi è la donna arsa, il cui cadavere resta invaso da blatte, posta aldilà dello specchio che con me si riflette celando la mia visione.
E a tal punto, il viso della maledetta vecchia si contrae in una smorfia d’indicibile angoscia che quasi sobbalzo dall’incredulità. Le sue rughe immesse in un macabro quadro di lurida rovina ad aver spinto l’umano essere a tramutarsi in così tanta malignità e disarmonia di forme. Ed io, in me, barcollai nelle convinzioni. Allora ancora mi piego all’orrore? C’è vera soluzione al dilemma? Il terrore di Dio è ordine per gli uomini, ma l’ordine della mia psiche deriva certo dalla consapevolezza d’essere più grande d’ogni Io. Senza tale convinzione il lume svanisce in favore del delirio più ingrato ed infatti ero lì a impazzir nel pensiero.
-Una donna? 
-Lei la conosce? -le chiedo distanziandomi.
-Costei è la madre, ma perché a te appare?
-La madre dell’esordio, dall’incesto ad aver generato tanta deformità?
-Deforme è il tuo spirito se ella da te si reca.
-Lo è senz’altro. -le dico
-Di questo non dovresti compiacerti, né dovresti esser tanto indisponente dinanzi all’orrore da lei protratto.
Il tono s’affanna, il petto della vecchia che si contrae le tedia il respiro e il tremore delle gambe tutta la tormenta lì immobile sulla sedia su ruote.
-Il vero potenziale dell’umana logica deriva o sorgerà dal collasso delle pulsazioni che la tengono a freno con l’impossibilità della fioritura. Lo spirito nuovo deve smettere di sentire odio ed amore per neutralità delle decisioni in favore dal buon mondo. Queste distrazioni tutte hanno padre l’orrore ed io ora m’elevo perché mi son reso libero uomo.
-Blasfemia debellare la natura quando parti d’essa son amministrati da poteri ancor non compresi.
-Di quel potere parli?
-Del senso del lugubre.
-Cosa lo coordina?
-La madre.
-E questa tua madre lo è per davvero? Sei tu, vecchia, figlia del suo seno come ogni abitante di questo perverso paese? 
-Io non sono figlia del tetro, a lei son avversa. -tenta di gridare.
-Perché allora vivi in mezzo alla sua prole?
-Per condanna, per morte mia non consumata adeguatamente e per vita tanto estesa che ad Apleda mi dà lei tormento con atroce tortura nell’osservare il riflesso mio cosparso di piaghe.
-Allora cosa siete? Tutti spettri? Tutti demoni? Cos’è il riflesso e la madre?
-Chiediti, piuttosto, cosa sei tu e cosa cerchi dall’abominio.
-Cerco risposte ai miei quesiti. Elevato qual sono, raggiunto lo stimolo più grande mai provato da alcun uomo, più grande d’ogni immagine di terrore mai concepito, m’è divenuto tutto neutrale. Io ho vinto, son ora come un profeta.
-Tu t’inganni, ragazzo. Non tutto t’è neutrale.
A quel punto, risentito dall’offesa della vecchia, invece di strangolarla con le mie stesse mani, mi scaravento fuori lasciandola al suo delirio. Il clima avverso delle alture promette innumerevoli gelate. Son diretto verso lo specchio per affrontarla un’ultima volta.
Assurdo come il mio adattamento sia tanto efficace che anche ora mi diviene insulso ogni spettro che nel bosco mi si espone, ed ogni piaga dei villici non più m’orrifica. Dall’alto d’Apleda s’estende il gotico dell’inferno più infelice e io con clamore dentro ci sguazzo. Ho scritto questa nota dinanzi all’entrata della casa mentre le mie mani si fanno rigide e i fiocchi imbrattano i fogli del diario sciogliendo l’inchiostro. Ho corso per le alture al buio. Il freddo è insostenibile. Non so se superata è la mezzanotte.
Frantumerò il vetro. 
Non potrò esser mito fino a quando lei al riflesso, al mondo aldilà, s’aggrega. Il mio pensiero ai suoi vermi rivolto ed i discorsi intrapresi sulle piaghe sue, saranno per me, sempre, motivo d’orrore, per quanto possa rigettar al viso tutti i miei liquidi e il mio sangue, ripudiandola e condannando l’effetto che su di me s’avvale. Quindi ora dovrà lei morire ancora ed io sarò, davvero, salvo dal tetro, immune al brivido, incline al neutro e pronto a plasmare un equo reale.

4 Novembre.
Un’alba nuova sta sorgendo. 
Avvicinandomi al riflesso ho scosso le mura, sembrava che tanti ventricoli in esse stessero pulsando all’unisono. Passo dopo passo, avevo in gola tutto il viscido della mia nuova divina condizione e tanto mi devastavo tanto più lo specchio mi si faceva vicino, ed era vuoto. Stava come a maledirmi ed io maledicevo, a mia volta, la vita umana perché obbligata alla pulsazione. Convulsamente, espellevo ogni liquame del mio corpo e con le unghie estirpavo violentemente i lembi di carne superflui. Sventrandomi ancor di più le membra, tastavo il senso liscio delle mie interiora ed il fetore cadaverico impregnava la camera per l’ultima volta. Bruciavo la pelle per ogni infestato ardore che avevo in intimo ed i vermi delle mie cavità scavavano dentro me infinite gallerie dove la ragione veniva meno nell’inseguirle strisciando con loro in branco. Lasciavo unghie e pezzi della mia persona mentre al riflesso mi congiungevo per impartire la superiorità del tetro. I miei versi d’agonia straziante si perdevano nello spazio che or sembrava sempre più espanso. I miei fianchi si contorsero a causa delle piaghe che dal mio ventre risalirono ed in pochi attimi si facevano ricolmi di sostanze candide poi espulse con l’esplosione indotta delle fistole, ma le abrasioni derivanti rimanevano rosse per ogni parte, dacché la manifestazione della mia malattia mi portò ad un passo dalla caduta in terra. Deviato dalle smorfie e dalla nera carne carbonizzata, non più avevo volto umano. Ero sadica bestia ed il cranio ammaccato con pochi ciuffi di bianchi capelli a ricadere stanchi , ma io comunque non arrestavo il passo. Ero, e son ancora, nella mia forma più decadente, vittima d’ogni fragilità che il reale impone al mio intelletto naufragato in banalità, relegandomi allo stato d’abbaglio.
Lui, però, più di me, in condizioni atroci versava. 
Se non visibili erano le piaghe, quelle nel suo spirito s’erano fatte strada. La valanga discese dalle cime e l’abitazione tremò tutta. La morte sopraggiunse rapida dacché io, fuoriuscita dallo specchio per riversarmi nel mondo umano, ma rimanendo congiunta al riflesso, riuscì a posare il mio braccio ustionato sulla spalla di lui che mi credette cadavere, ma quello a me non si rigirò, né poté osservarmi come abomino qual sono. Fomentatrice del suo orrore, non fui io a paralizzarlo per l’eterno, a condurlo violentemente tra le braccia del traghettatore, perché sì, il riflesso, mia patria, attraverso il vetro, aveva fatto il resto, mostrandogli la sua immagine storpiata dalle piaghe più ignobili che mai avesse avuto, semplice uomo in terra, capacità di sostenerne la visione. Nacque un’ulcera per ogni pulsazione che aveva egli tentato di sottomettere al volere d’una carne che, immoralmente, ricercava un potere che mai, per regola del cosmo, avrebbe dovuto, e potuto, contemplare per suoi natali indegni, mortali. Egli s’osservò marcire, mutare d’aspetto e corrompersi nell’interezza. Le piaghe fuoriuscirono copiose dai suoi zigomi deformandogli il cranio per ogni scoppio. Atroce fu il dolore provato prima di spirare perché il bianco della sostanza pulsante si mescolava al suo sangue sottraendoglielo e rovesciandolo a terra in tumulto. Fu una raccapricciante immagine. Si vide crollare a terra in ferocia indefinibile. Anche gli involucri delle orbite esplosero perché pustole nelle cornee si svilupparono rapide ed implosero fino a sventrarlo in malo modo e poi anche tra le pareti dallo stomaco che s’aprì di getto facendo sì che dal petto fuoriuscirono prima il cuore e poi ogni organo adiacente, ed egli s’accasciò gridando ingiurie con l’ultimo sospiro. Percependosi squarciato da un male ignoto ebbi possibilità di divorargli gli interni con facilità tanto soddisfacente era la lacerazione che quasi in due parti aveva diviso il cadavere. Il ghiaccio ci investì per l’eterno, ma s’arrestò alle pareti della casa, mentre l’epidemia sul morto progredì fino a smarrire ogni vista d’umano essere trasformandolo in un accumulo di putrida materia, ancor fremente. A quel punto, dopo aver banchettato con l’accumulo di quella carne infetta, ho, in terra, raccolto il suo diario e scritto l’ultima nota.
Nausica, ora vecchia e deforme, è sopraggiunta poco dopo per maledirmi quale demone vedendo l’accaduto; che dolce visione. 
Oggi l’inverno avvelena le alture come non mai, questo m’aggrada. 
Ora è un’alba nuova ad Apleda ed io ora avrò di che cibarmi per tutto l’inverno.
Qual condanna è l’ego indomito, tanto conduce a dannose infondate credenze. Egli aveva sì creduto di poter domare ogni piaga d’orror dei demoni, ma non quelle del tanto miseramente fallire.

“Il trionfo della Morte” di Palazzo Abatellis(Palermo)


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