1. L’Urto

Vittorio Malosi era impulsivo. Reagiva ad ogni stimolo che riceveva e lo faceva sempre in brusco modo, a volte immaturo. Nessuno capiva mai il senso dei suoi rimproveri, dei suoi rammarichi, del suo maledire ogni nuova conoscenza, avventura o idea. Sotto le gocce di una pioggia giallastra ed insistente, illuminata dai particolari e curvi lampioni, all’improvviso, mentre, assieme a Lucia Lovia, avanzava sulle mattonelle squadrate e livide sotto l’ombrello rosso di lei, lo urtò un passante dal cappotto ingombrante, di stoffa ruvida, dalla tinta di un beige slavato e spento. Il colpo bruciò sulla spalla del ragazzo che si voltò con l’intento di rispondere aggressivamente alla spinta subita, ma lo sconosciuto neanche s’accorse del fastidio provocato e la foschia della notte in lacrime tenne nascosto un volto segnato, scuro e indecifrabile, mentre un passo furtivo, rapido, quasi non umano, scomparve dietro l’angolo del palazzo tenue impregnato d’acqua lasciando perplessi i due giovani. Lucia tirò un sospiro di sollievo nel vedere Vittorio riprendere ad avanzare di fianco a lei, ricomponendosi e rinunciando alla sua vendetta. Così giunsero all’entrata del solito locale nel solito quartiere. Le ombre d’ambra avvolsero la sua pesante giacca adornandola con un forte cobalto lucido.
– Piovesse acido! – esclamò Vittorio.
Lucia non risentì di quell’affermazione. Era abituata al veleno che l’amico esibiva di continuo.
– Sai che mio padre vuole parlami? No? – tentò di cambiare discorso.
Entrarono insieme. Nel varcare l’ingresso del locale le note di una musica elettronica invasero l’aria degli interni riscaldati e il mondo si fece pregno del rosso di un dipinto ad olio, ma mobile, reale e senza tela. Dal buio tombale della notte della metropoli si passò a respirare il fuoco di un luogo di pace, familiare, temprato di musica e facce amiche.
– E cosa hai intenzione di fare?
– Non so. – rispose lei.
Lucia conosceva la tendenza di Vittorio a valutare con analisi estrema ogni nuova possibile soluzione che si presentava; eppure, il suo eccesso di razionalità non gli permetteva di restare lucido dinanzi ad una qualsivoglia offesa che sentiva fatta contro sé o contro chi gli stesse a cuore. Lei lo sapeva e per questo motivo rimase ferma con l’intento di accogliere ogni provocazione con pacatezza. Vittorio appese nervosamente la giacca porpora all’ingresso. Lucia lo seguì nel gesto scuotendo il suo ombrello rosso e ponendolo in un angolo.
– Perché dovrebbe importati? Sprechi solo energie. Cosa ci guadagni ad incontrarlo adesso?
Vittorio era lì a pensare a ogni singola nuova proposta del suo ristretto gruppo di amici. Valutava i rischi. Odiava perdere tempo e risorse. Un volto definito. Alto nella statura. La capigliatura scura e arricciata montava su una pelle chiara e nordica. Una figura comune fatta di due pupille di un colore mandorla già visto. Non diceva nulla nell’estetica. Gradevole ad averlo intorno, sembrava avvolto da purezza e stabilità, ma poi conoscendolo, quel suo equilibrio apparente mutava in una personalità accesa, ribelle e afflitta da tetri stimoli.
– È mio padre. È una cosa che va fatta. – disse Lucia e s’aggiustò i capelli dorati nel mentre, in equilibrio con due occhi di un chiaro celeste.
– Non valuti i rischi.
– L’ho fatto, ma alla fine sta chiedendo solo una chiacchierata.
Si incamminarono verso il bancone tentando di evitare il trambusto della folla in sala che in piedi e con bicchieri di liquidi aromatizzati scuotevano i corpi al ritmo della tastiera elettrica.
– È una parte del tuo passato che hai rimosso. Non ha senso riviverla.
Trovarono due posti dinanzi al bancone semicircolare la cui tavola ardeva di venature lignee di ogni sfumatura dell’acacia. Si sedettero insieme. Di fianco a loro c’era una fila di persone in piedi o adagiate sui comodi sedili tondi che chiedevano da bere ai baristi in eleganti camicie immacolate.
– Potresti rimaner commossa dalla sua condizione. Potresti ritrovarti un poveraccio da sfamare o rivivere interamente ogni trauma e ogni violenza. – continuò.
– Stai immaginando ogni scenario, eh Vittorio?!
– Solo quelle più probabili. Tutti finiscono con te che te ne penti.
– E se non dovesse essere la miseria a spingerlo a chiedere scusa, ma la consapevolezza dei suoi sbagli?
– Ridursi alla fame è il frutto di molti sbagli in realtà. Pensaci! – riprese fiato.
– Una volta toccato il fondo tocca uscirne con ogni mezzo, per quanto vile sia. Per questo, stai attenta! – concluse il giovane.
– Non puoi però prevedere ogni minima cosa.
– Sì, ma, ripeto, tu non valuti i rischi!
– Vieni tu a parlarmi di rischi quando al minimo problema impazzisci del tutto?
Vittorio rise di gusto. Cercò un barman che potesse soddisfare la sua sete.
– Le persone in questa città sembrano delle lastre di vetro opaco. – disse ignorando la provocazione dell’amica.
Il ragazzo indicò i tre uomini che s’agitavano a rovesciare liquidi di ogni sorta in bicchieri di cristallo e mescolarli con frutta o ghiaccio. Lucia pensò a quanto pareva veritiera l’affermazione di Vittorio. Quell’eleganza innaturale e le capigliature perfette dei tre baristi fornivano un senso di realtà plastica, modellata e falsa.
– Pupazzi che agitano le braccia. – aggiunse Vittorio mostrando un ghigno di soddisfazione aspra.
– Non ho mai visto una capitale tanto splendente. Ti assicuro che è uno specchio persino quando piove. Pareti pulite, locali limpidi, persone simili a tanti burattini accessoriati e musica calcolata. Guarda! – Vittorio invitò Lucia ad osservare la pista da ballo.
– Sembra che tutti si muovano allo stesso modo. Cambia il passo, ma non l’insieme. Se ti concentri, vedrai persone aver fatto lo stesso ragionamento, la stessa strada, lo stesso giro di parole e lo stesso ballo. – le disse in tono cauto per non farsi udire.
– Tu sei completamente impazzito!
Lucia si rigirò ad osservare la sala focalizzandosi su un uomo in particolare alto e slanciato, stempiato ai lati del cranio, dal faccione grigio, ma apprezzabile. Il piede destro batteva in avanti e le mani applaudivano a tempo. Seguiva, egregiamente, il ritmo della musica. Una donna grassa dall’altra parte batteva il piede sinistro in senso opposto all’uomo, ma applaudendo in uguale maniera.
– Nah, cosa vai mettendomi in testa? Devo soltanto bere ora! – si destò Lucia.
– Quando c’è da servire una così bella donna non mi tiro certo indietro. – emerse una voce nuova, ma familiare. Dietro al bancone, ecco giungere uno dei tre baristi. Un ragazzo bello e formato, dai baffi corti, scuri e in risalto. La capigliatura definita e tirata all’indietro dava al giovane un timbro da vecchio saloon proibizionista.
– Era ora! Che fatica avere da bere in questo lurido posto.
Il nuovo arrivato stava a lucidare un bicchiere che poi ripose stando eretto davanti ai due. Squadrò Vittorio con espressione divertita.
– Hai scelto una brutta compagnia questa sera, Lucia.
– Ehi, Andrea Selini, ti vedo ingrassato stasera, oltre che più basso!
– E io ti vedo sempre come il solito figlio di troia!
I due ragazzi si salutarono con entusiasmo. Lucia ridette a dismisura quando Andrea fece il gesto di scaraventare il bicchiere appena lucidato proprio contro il volto all’amico. Un gesto che a Lucia sembrò tanto veritiero che quasi si spaventò.
– Se avessi finito gli studi con me adesso avresti un lavoro vero fuori da questa bettola. – disse Vittorio e ritornò a sedere con aria soddisfatta.
– Una bettola? Amico, sei nel regno del diamante qui! Compila tu quelle scartoffie putride di legge e roba polverosa che ti danno in tribunale. Io, intanto, creo il mio impero!
– Ehi, Selini, qui non si parla con gli amici! Qui si lavora! – gridò un altro dei tre baristi da molto distante, rimproverando Andrea. Vittorio aguzzò la vista in direzione del suono, ma il riflesso delle vetrate brillò coprendo completamente il viso dello sconosciuto e questo si rigirò di spalle.
– Sì, ho capito!
– Scusate, ragazzi, locale strapieno, ne riparliamo dopo. Benvenuta in città, cara Lucia.
Fece per andarsene, ma ritornò immediatamente dinanzi ai due amici.
– Stavo per dimenticarmi. Ordinate? Prendete ancora le solite due birre che prendevate in paese?
Lucia ricordò il loro borgo e i bei momenti spesi con quei due in fanciullezza e spensieratezza.
– Mmh, che dici? Le solite due birre? – chiese la ragazza mentre i suoi occhi blu si riflessero nel lucido del mobilio del locale indirizzandosi a Vittorio che annuì tentano di rimanere serio, ma il piacere di aver di fianco quei due lo tentava a modo da non riuscire a trattenere il suo sentirsi coinvolto dalla scena.
– Le solite due birre. – acconsentì.
Neanche il tempo di terminare la frase che Andrea era con le braccia sul bancone con due bottiglie fresche appena stappate.
– Ci vediamo dopo per il conto. Godetevele, stronzi! –e tornò a vagare tra la cristalliera illuminata e il bancone. La folla di clienti, intanto, si moltiplicava a dismisura.
– Il suo impero? – Chiese Lucia con accento ironico accostando la bottiglia a quella dell’amico che picchiò con la sua brindando alla notte.
– Se mi avesse ascoltato sarebbe diventato un buonissimo avvocato e invece vedo che continua a vagare nelle sue fantasie.
– Dovresti credere nei sogni altrui.
– Io credo in lui, è che le sue ossessioni lo frenano. Ora fa teatro.
– Che bello!
– Certo, ma, per ora, si mantiene facendo il barista.
– E la questione dei pupazzi? – domandò lei in tono malizioso.
– Vorresti negarlo?
Lucia ci pensò su intanto che riguardò l’amico. Lo sguardo di Andrea, dietro al bancone, era fisso ai clienti. Sorrideva a chi richiedeva il suo lavoro e preparava con mani ferme gli intrugli di margarita. Il suo viso cinereo sembrava recare sempre la solita espressione. Il suo fare era impeccabile. Nessun avventore contrariato. La posizione eretta. I denti candidi e dritti che parevano di falsa ceramica. La postura diligente, ma che recava, continuamente, le solite due facciate. Una curva a sorridere nella preparazione e una finta smorfia interessata quando si trattava di riscuotere le mance. In effetti, al suo fianco, le altre due figure si muovevano allo stesso modo come trainate dalle stesse mani e dagli stessi fili. Facevano roteare in aria il vetro delle bottiglie impressionando ogni spettatore di quella commedia ben strutturata, ma manierista, copiata e palesemente falsa.
– Si sta solo adattando. Lo fa per sopravvivere. Non so se n’è felice! –esclamò Lucia perplessa.
– Credo che non se ne renda conto.  – il fare scontroso di Vittorio sembrava trasporre odio nei riguardi di tutto e tutti.
– Dai, so che gli vuoi bene!
Quello produsse un soffio spento di scherno e derisione.
– Alla fine, non è colpa sua. Entrambi veniamo da paesi dell’entroterra disastrati. Questa città ti attrae col denaro. Ti mastica confondendoti alla civiltà fasulla che la abita e ti sputa che oramai sei una marionetta.
– A quel punto, tocca solo andare con gli altri. – si percepiva una nota di vero disgusto nelle parole di Vittorio.
– Esageri. – lo rimproverò Lucia. La giovane dovette togliersi la felpa scura che gli lasciava scoperto un po’ il ventre piatto per il calore irrespirabile del locale. La poggiò sulla sedia e quindi si rigirò ad osservare l’uomo stempiato di prima al fine di non cadere nelle provocazioni di Vittorio come si era ripromessa poco fa. Osservò per un po’ e memorizzò i gesti dell’essere immerso in mezzo a tante ombre scarlatte che si agitavano. La donna grassa ripercorreva, ancora, gli stessi identici movimenti, ma opposti e in attimi diversi. La folla, in generale, sembrava composta da esseri distratti, spensierati e divertiti; tuttavia, osservandoli uno ad uno, Lucia percepì, angosciata, uno schema rigido e ripetuto in ognuno di loro.
– Ci pensi ancora? – chiese Vittorio all’improvviso facendo sì che Lucia ritornasse a contemplare il reale, riprendendosi dall’ansiosa distrazione.
– A cosa?
– Alle persone.
Arrossì per il caldo. Il formicolio d’una nuova sensazione d’afflizione la riportò al gelo dell’inverno di quella notte.
– Che intendi?
Vittorio stava fisso con lo sguardo alle mensole della cristalliera davanti a lui. Dava le spalle alla distratta Lucia che si vide un’agitazione nuova stingerla intorno alla vita e risalire fino al petto.
– Si muovono tutti allo stesso modo. – inarcò le labbra in un sinistro sorriso.
– Non capisco. Questa roba fa paura davvero.
Lucia teneva lo sguardò fisso sull’uomo stempiato che ora, rosso in viso e soddisfatto, sembrava che osservasse la donna grassa, ma poi si fermò per dirigersi al suo tavolo.
– Questa città tutta lucida è fatta così. Tutti sembrano il riflesso dell’altro. Una cultura dell’imitazione inconsapevole radicata in ogni uomo o donna.
– Dai, ma sono stronzate!
– Giuro, ed il bello è che non si accorgono di niente.
– Bah, sono fantasie!
– Dai, Lucia, lo hai visto anche tu!
– Non ho visto niente. – mentì mostrandosi incurante, ma era evidente dalle sue movenze incerte che la questione aveva fatto presa sulla sua psiche.
– Ti assicuro che è così.
– Così come? Tipo come se diventassero tutti la stessa cosa? – chiese accorgendosi che il polso gli tremava leggermente nell’istante in cui accostò la bottiglia alle labbra sottili.
– Nessuno è mai identico all’altro. Abbiamo pur sempre un passato che ci diversifica. -Vittorio trasse un altro sorso.
– Più che altro è una serie di gesti, idee ed espressioni, talmente invadenti che a poco a poco finiscono per uniformare tutti a uno stesso modello. –aggiunse il giovane asciugandosi la bocca.
– I romanzi ti hanno dato alla testa, Vittorio.
– Può essere.
– Sei un avvocato. Dovresti rimanere coi piedi a terra!
– Guarda che non c’è nulla di cui aver paura. Queste persone sono innocue come mosche. – disse arrogantemente il ragazzo. C’era un fondo di verità in questo?
L’uomo stempiato abbracciò una donna e salutò tutto il resto di una comitiva di individui sulla quarantina per avviarsi all’uscita. Lucia non s’accorgeva di bere sempre più rapidamente.
– Non ho paura. Per chi mi hai presa?
– Ti sto solo descrivendo questa città.
– È il mondo che diventa tutta uguale, non solo questa città.
– Eppure, tu rimani la stessa anima sensibile di sempre.
– E tu? Sei in città da tempo. Non sei diventato come tutti gli altri?
– No.
– E perché tu non dovresti uniformarti?
– C’è una differenza tra me e tutti questi. La stessa differenza che c’è tra me e te. – riprese fiato.
– Ossia?
Si palesò un imbarazzante silenzio tra i due, spezzato dal tono profondo di Vittorio:
– Io non ho paura.
Lucia ora non resistette e s’offese, ma rimase vigile coi gomiti appoggiati al bancone e rivolta alla sala piena del locale.
– Ti sembra che io ne abbia? – chiese alterandosi.
– Sei terrorizzata.
– E da cosa?
– Da quell’uomo per cominciare.
Lucia si contorse tutta di scatto tornando a puntare dritto lo sguardo alla cristalliera dietro il bancone e qui vide una lastra di vetro immacolata riflettere il volto scarno di Vittorio avvolto da un ghigno compiaciuto. Si sentì mancare il fiato.
– Sei davvero un coglione! – lo colpì con le nocche sul braccio mentre Vittorio non smetteva di deriderla in modo innocuo.
– Vedi? La situazione con tuo padre ti sta rendendo più suscettibile e già hai un grosso problema di emotività. – l’accusò e rise tanto, che quando bevette nuovamente, la birra gli andò di traverso da obbligarlo a tossire un paio di volte per mandarla giù.
– Sei bravo, niente da dire! – si congratulò lei ironicamente e tentò di sorseggiare ancora, ma la bottiglia si presentò alle sue labbra completamente vuota. In preda alla scenata di Vittorio, aveva, nervosamente, inghiottito interamente tutto quanto c’era in essa. Lucia si sentì una sciocca, ma si rassicurò accasciandosi sullo sgabello di fianco e accettando il fatto di essere stata così facilmente raggirata. Trasse un profondo respiro rilassando la presa sulla bottiglia e si tranquillizzò.
Ci fu silenzio nella sua testa per pochi attimi, ma la musica tornò presto a ingombrare il locale di una nuova tonalità di blu sfavillante. Si rivolse al palco che sosteneva il talentuoso gruppo in concerto.
– ma alla fine, questo locale, come si chiama? – chiedeva Lucia.
Vittorio si mise ad osservare la pista da ballo dando le spalle all’amica.
– Lo chiamano bar Rebbia. Vengo qui, praticamente, ogni sera.
– Sembra davvero figo!
Dalle pareti colò la tinta di una sinfonia coinvolgente prodotta dal più ritmato sassofono. Le persone tornarono ad animarsi in modo ancora più istintivo e sarebbe così, quel locale, tornato ad essere l’ambiente affabile di sempre per Vittorio, se, dallo specchio della cristalliera, Lucia non fosse tornata a guardare, per caso, il riflesso della scena che si evolveva alle sue spalle. L’uomo stempiato era fisso in piedi e guardava nella sua direzione. Lucia lo notò in mezzo a tante e solite maschere anonime che intorno gli si stanziavano. Indossava un cappotto lungo, ruvido e del color del legno fresco, appena preso dall’appendiabiti all’ingresso che ancora stava finendo di abbottonare. Un cappotto che Lucia, subito se ne accorse, aveva già visto pochi minuti fa girare furiosamente l’angolo della città lucida dopo un tremendo urto che sembrava voluto, diretto e feroce. Erano due pupille del ghiaccio estremamente chiare ad essere quasi irreali ed immobili. Nel macabro sguardo impresso un riquadro agghiacciante che spense ogni tonalità del blu per abbracciare il nero più cupo. Lo sconosciuto non stava però fissando lei, seppur quell’orizzonte di cui lei faceva parte. La paura la invase totalmente. Non tanto per quell’espressione di sfida, ora, saputa a lei non rivolta, quanto per la veduta della bottiglia vuota lasciata furiosamente sul bancone ed un rumore di passi nervosi che si scaraventavano verso l’uscita. Lucia si voltò affannata. Vittorio non era più al suo posto e, adesso, andava furiosamente contro l’uomo stempiato.

(I nottambuli (Nighthawks) è un dipinto di Edward Hopper; realizzata nel 1942)

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