– Vuoi prendermi per il culo? – Vittorio tiranneggiava Andrea.
– Che cazzo dici, Vittorio?
– I tuoi amichetti dove sono?
– Che dici?!
– Hai messo su una bella recita!
– Non ho messo su un cazzo di niente!
– Proprio una bella recita!
L’ordine è uno strano concetto. Si associa ad uno stato emotivo e fisico in modo assai unico e soggettivo. La Pace asseconda il suo significato ed è disegnata a modo per ognuno che va ricercandola. La Quiete è nello spazio di uno solo, ma questo assume proprio i nostri connotati quando andiamo ad occuparlo, modificandosi anche nella sua intima purezza originaria; per questo si può dire quanto sia complesso e singolare il significato di Ordine, perché complessi e singolari sono le creature che ne definiscono i tratti. Tutti diversi e discordanti i pareri degli esseri umani, non potranno mai allinearsi in un compromesso, che a loro tutti vada bene, sulla linea da seguire per definire una nuova era di pacatezza e moderazione.
– Non so di che stai parlando.
La vicenda del Bar Rebbia non si lega, però, all’Ordine, perché il pulsare di quella notte moriva e rinasceva coinvolta in una spirale senza fine di trame sottili tutte legate ad un passato condiviso con cui, a quanto pare, quei ragazzi, pronti ad immettersi a pieno merito nelle responsabilità da adulti, non avevano fatto ancora i conti. Spirale affine a quella che la pioggia disegnava convergendo nei tombini della città lucida.
– Maschere!
– Maschere?
– Sì, mi hai fatto lo spettacolo, eh?! Cosa vuoi? Che credi?
Vittorio allungò le braccia in direzione del collo del compagno. Andrea si dimenò nel modo meno appariscente possibile per non attrarre l’attenzione dei clienti e turbare l’Ordine. L’orologio dalle lancette curve segnava le due e mezza del mattino. Di tempo ne era passato. Spesso, però, nel confuso e nell’eccesso, il tempo non coinvolge lo spettatore se non limitato; ed è per questo che, ad un certo punto, in certi limiti di razionalità e analisi, l’ordine dovrà mettere un freno ad ogni domanda e dubbio.
– Qui siamo tutti impazziti!
– Li ho visti!
– Chi hai visto?
– Quei burattini del cazzo!
Bar Rebbia andava spopolandosi. La metà del locale era andato via dopo il confronto col battito di una musica assidua, ma che ora volgeva in prassi e leggerezza. La band accompagnava tutti verso il silenzio e non più verso l’eccitazione dei sensi. L’atmosfera sembrava ignorare lo stato d’animo dei protagonisti di quella cronaca del pensiero turbato.
– Io ti ammazzo!
– Cazzo fai tu?
– Io ti uccido, qua!
– Tu hai bisogno di aiuto, Vittorio!
– Non hai capito niente! Io ti uccido se non mi dici cosa stracazzo succede!
– Provaci!
Vittorio si slanciò in avanti. Andrea era pronto a reagire dimenticando il vecchio loro vissuto di pacata convivenza. Aggredito, proruppe in un colpo sicuro e fragile, ma mancò il segno. Vittorio, invece, con carica feroce, lo prese sulla bocca, in pieno volto. Andrea sentì le labbra spaccarsi. La ferita iniziò a scottare sin da subito. Le nocche di Vittorio lo umiliarono meno nella verità che quell’atto ignobile fosse compiuto da un compagno, un tempo fidato e presente. Vittorio, nell’orgia della selvaggia euforia, non sentiva e non si ricomponeva. Nella sua testa, il bar Rebbia divenne un guscio vuoto di lussuria e voglie mai veramente soddisfatte, in lui ora riaccese da un lampo di irrazionalità indomita. Un vuoto di ragionevolezza che andò a piegare tutta la freddezza che aveva tentato di far sua e di immettere in una mente che, adesso, riuscì a convincersene, era deviata. Lo era per davvero. Distolta e confusa dalle circostanze casuali o architettate, avevano comunque raggiunto il fine di deformare i suoi propositi ed ora Vittorio era un pazzo in mezzo a brutte maschere.
– Perché lo fai? – domandò Andrea ancora piegato dal male.
Vittorio si contrasse al modo di un povero stolto violento come tutti, che però appariva anche peggiore di ognuno di quei pupazzi tutti uguali. Pezzi senza forma. Frammenti del pubblico allo spettacolo di Bar Rebbia, perché loro mai si erano abbassati ad adottare aggressione fisica, ma, esclusivamente, con molestia psichica, erano riusciti a tramutare un ragazzo della città lucida in una belva senza controllo.
– Bastardo!
Vittorio sentì un fischio dal lato giungere nella sua direzione. Credeva fossero gli altri due accorsi a difendere Andrea, ma quella figura, che si scagliò contro di lui, non produsse l’urto che si aspettava infrangendosi contro la sua spalla possente in modo flaccido e prevedibile.
– Sei malato! Smettila!
Quell’ombra, ancora su Vittorio, si dimenava, ma senza recargli danno. Il giovane guardò in basso. Sotto la sua figura piazzata c’era Sara in uno stato pietoso e poco rassicurante che batteva ancora i suoi ticchettii instabili contro un corpo che non ne risentiva.
– Cosa ti è successo? – chiese Vittorio a lei e il suo tono tornò cordiale.
– Cosa?
La musica non aveva cessato di far rumore, ma le maschere volteggiavano indecenti e con deformi facce lunghe di disapprovazione. Anzi, ancora di più era certo odio e disgusto verso il modo di fare fraudolento che il ragazzo aveva espresso. Vittorio si guardò intorno. Lo giudicavano dall’alto del loro nobile stato di non violenti; eppure, causavano come lui orrore, solo non in forma corporea e percepibile, ma fittizia. Andrea era chinato e con una mano si reggeva la bocca sfregiata. Piccole chiazze di un rosso vivo giacevano in terra vicino agli sgabelli.
– Cos’hai affatto? Cos’hai fatto?!
– Sara, io no…
– Perché lo hai colpito?
– Io…
– Sei un animale!
– Non volevo…
La vergogna bruciò in petto a Vittorio come fiamme di un altro mondo non percepito. Da lì proprio derivò, era sicuro, l’energia che lo aveva tramutato in quello che non sentiva. Instabile nel complesso e morto. Umiliato davanti a volti nati umiliati per natura. Sentiva come aver smarrito il senso e l’intenzione. Aveva perso.
– Devi fermarti, basta!
– Io…io mi sono fermato.
Un braccio robusto cinse Sara allontanandola da lui che si rivolse in direzione della sua prospettiva ed alla sua precisa altezza. L’uomo stempiato arrivò sulla scena. Aveva agganciato la ragazza dai fianchi, ma quella non accennava a fermarsi e continuava a dimenarsi con gli occhi sbarrati e, forse, corrotti dal mascara colato che aveva colpito le pupille accecandole per un po’.
– Lasciala andare! – esplose Vittorio.
– Basta, bel ragazzo. È finita. – Da dietro le spalle dell’uomo comparve Ioana in tutta la sua stazza precisa e compatta.
– Dai, Joele, mettila giù! – disse a quello che obbedì e posò Sara nel modo più composto possibile.
– Calmati, ragazza mia.
Ioana abbracciò Sara che si gettò tra le sue braccia come quando una figlia smarrita si getta al petto di una madre ritrovata; eppure, si conoscevano da poche ore appena e tante ne erano bastate per sentirsi più al sicuro nel suo spazio che in quello occupato da un ragazzo che aveva scelto nella passione. Nuova umiliazione marchiò Vittorio. La folla si moltiplicò ancora, come all’ingresso, ma ora i toni erano più severi. Gli occhi dei burattini più feroci.
– Chiamo la polizia? – proruppe una voce nel gruppo dei clienti di Bar Rebbia.
– La chiamo io. – rispose un altro.
– No! – Andrea si risollevò dal bancone. La manica della camicia era zuppa del suo sangue, ma la composizione della sua persona era composta, sembrava aver perso l’energia di sempre, ma non certo la gentilezza.
– Niente polizia, ragazzi.
– ma ti ha dato un cazzotto in piena faccia, amico!
Alcuni individui cercarono di sorreggerlo, ma Andrea rifiutò l’aiuto con un gesto calmo della mano. In Vittorio si rifecero strada i ricordi del giorno di sangue, della buia cantina dalle pareti rustiche, di Andrea legato e terrorizzato, sembrante morto e Lucia nuda, agonizzate, che provava a rivestirsi fallendo e crollando in terra. Vittorio, quel giorno, cercò di sorreggerla allo stesso modo, ma la ragazza rifiutò il suo aiuto con lo stesso gesto che Andrea ora rivolgeva allo sconosciuto in suo soccorso. Si sentì un vile disastro, allo stesso identico modo di quel maledetto pomeriggio di violenza. Si scosse ancora e tutti arretrarono spaventati.
– Perché?
– Pe…perché avete paura? – aggiunse Vittorio confuso.
– Stai indietro, tu!
– Non preoccupatevi ragazzi, lo conosco. È solo uno squilibrato!
Andrea tentò di esporre l’espressione più naturale e consona all’allegrezza possibile, pur continuando a mantenersi la bocca ferita.
– Ora l’hai fatta grossa…
Due figure in camicia bianca accorsero.
– Non…non può essere.
– Come stai, Andrea?
– Sto bene non preoccupatevi.
– Te l’avevo detto che era un pazzo!
Uno dei due squadrò Vittorio in cagnesco. In lui era precedile tutta la voglia agonizzante di fare del male al ragazzo.
– No, abbiamo esagerato.
– Lui ha esagerato!
– No, no, l’ho insultato io.
– Ah sì?
L’uomo appena giunto aveva dei baffi, ma era certo un essere sulla quarantina almeno. La corporatura, più marcata di quella di Andrea, non poteva essere confusa con quest’ultimo. Certo i capelli potevano combaciare in qualche modo per il taglio e la tonalità, ma quelle rughe erano in malo modo piazzate e i lineamenti non era coperti dal fondotinta e del trucco esposto. L’altro era più giovane, assomigliava ad Andrea nel volto, ma i capelli erano raccolti e neri, sì, neri. Più alto di Andrea Selini, non poteva neanche lui essere lì scambiato con l’amico.
– Vi siete…Voi? – Vittorio si sporse in avanti, ma sentì le energie mancare.
Non erano maschere quelle.
– …questo non ha senso.
– Sei contento, amico? Dico, sei contento?
Quello alzò una mano in segno di offesa.
– Non toccarlo! – urlò Andrea cercando di frenare l’altro suo collega.
– Ho detto che ho esagerato io.
– Non voglio animali da rissa nel mio bar.
– Il tuo bar?
Vittorio guardò Andrea ripercorrendo tutti i ricordi di una vita spesa tra studi e confronti. Sara nella stanza in affitto a baciarlo nelle sue premure ed Andrea a deriderlo di ogni minimo particolare fuori posto. Era una bella vita quella, in parte la loro rinascita, ed ora tutto a rotoli, li aveva feriti entrambi.
– Eravate…voi, cioè voi.
Sara piangeva disperata. Andrea guardò prima i suoi colleghi e poi Vittorio, capì.
– Ah, eri loro che cercavi?
– Noi? – chiesero i due baristi.
Vittorio era spento, tumefatto, indifeso ed accerchiato. Non seppe cosa dire o rispondere. Si convisse di essere malato. Vittima di una paranoia a strati dannati. Vittima dell’irrispettosa sua condanna e della follia che lo attanagliava dal giorno in cui Lucia gli confessò che suo padre sarebbe venuto nella sua città lucida. Si strofinò il volto disperato.
– Dai, non ce nulla da vedere qui, andate via! Aria! – gridò il barista più vecchio e la folla si disperse confondendosi coi colori familiari del giallo incanto.
– Non è possibile. – parlava Vittorio intimorito. I suoi occhi feriti si spalancarono innaturalmente. Una spinta improvvisa si prolungò nel suo fianco e si mantenne il corpo in agonia.
– No, non credo a questa storia! – tuonò ancora, combattuto tra i rimorsi e la confusione.
Erano rimasti sulla scena ordinatamente tutti i personaggi del bar Rebbia, inclusa Ioana, che ancora tratteneva Sara e l’uomo stempiato al suo fianco con dietro quella sua comitiva passata.
– Voi avete qualcosa in mente. – stette col dito indicato a roteare intorno alle ombre dinanzi a lui.
– Vittorio, cosa credi? Che sia un gioco? – domandò Andrea.
– È solo pazzo! – pianse Sara.
– Non mi frega un cazzo! Loro erano te prima. – indicò i baristi.
– Non ha senso quello che dici. Guardali!
– Sì, ma forse tu…tu non sai niente, Andrea. Forse, tu sei una vittima. – ragionava come era abituato a fare e intanto continuava a roteare invano cercando di stabilizzarsi.
– Io, che?
– Sì, forse, tu sei una vittima, come me e…
Vittorio si voltò di scatto tra le piegature dell’atmosfera cupa alla ricerca di lei. Lucia mancava. Non si era ancora fatta viva. L’ansia gli trafisse il cuore, e il pulsare dei battiti si propagarono violentemente per l’intorpidito braccio sinistro. Credette di morire, ma non prima di averla ritrovata. Gridò in odio.
Uomo disperato (Le Désespéré) è un dipinto a olio su tela dell’artista francese Gustave Courbet, realizzato tra il 1843 e il 1845
