– Rovini i Piani! – Vittorio lesse, con abbastanza accuratezza, il labiale di Ioana e riuscì a sentenziare la frase detta, prima che la musica iniziasse ad alzarsi di un quantitativo sufficiente a oscurare ogni recondito appello a sé stessi. La band espanse nell’aria un suono di tale convulsione e condivisione che, dai tavoli, le persone iniziarono a dirigersi sotto il piccolo palchetto in rosso, dove un signore curvo suonava quel su maledetto sassofono in una maniera di tale coinvolgimento per un pubblico assai raro in tempi moderni e distratti. Il tutto crepitò verso un intrattenimento in cui solo bastava immergersi liberi da ogni pensiero deforme. L’atmosfera in una sorta di cupa credenza, una scatola dal contenuto immaginato e fuori dal mondo, mescolata ai respiri affannati dei danzatori che, sembrava, si agitassero fino a non avere più energie in corpo. Era una vita di emozioni durature, palpitazioni, ansie e paure. La vicenda del bar Rebbia pulsava di una voglia umana di ritrovare l’attenzione perduta nei riguardi della vita stessa, ora trascurata.
– Cosa dicono? – chiese Lucia, ma Vittorio non le rispose.
Disorientato, colse in volto un’esplosione di colore nerastro, sintomo del suo malessere infame a trascinarsi autonomamente tra le viscere dell’ego suo.
– Cosa fanno?! Cosa stanno dicendo?! – insistette Lucia volendo sapere come stava ad evolversi la scena distante, ma Vittorio, in neutralità emotiva, attratto ossessivamente dalle maschere avvistate, scomparve da quel rigurgito di livore, abbagliato dal mistero della trama spietata che s’andava a formare. I due sosia di Andrea Selini tenevano al guinzaglio la sua anima provata. Vittorio si disinteressò all’uomo stempiato per andar da loro. Incantato dalla due figure gemelle in camicia bianca che ancora si dicevano il da farsi, appartati in un angolo del tavolo e con le mani in mano, si spense totalmente in quel suo vortice di confusione attiguo alla inferma eterna immobilità.
– Vittorio…
Fu, forse, il punto di non ritorno. Un altro taglio in un corpo già ferito, ancora, e domande apparivano divorandosi l’un l’altra. Ecco che, in lontananza, l’insensata entrata di Ioana in scena, non gli dava più modo di legarsi alla sua lucidità sprezzante. Quella storia secondaria sparì del tutto dal suo contemplare e piano barcollò in direzione delle due maschere.
– Io, io non so… – accennò confuso e si allontanò da Lucia che in balia delle onde avverse di infeconda superstizione, ormai, convita, essersi radicate in lei nelle fondamenta, non riuscì a inseguirlo stavolta, ma rimase fissa ed appoggiata al davanzale a guardarsi intorno ed il pavimento di piegature sembrava flettersi nella sua direzione, mentre tutte le maschere del locale, che ora si scuotevano in modo chiassoso e inconcepibile, guardavano, sì, guardavano, anche muovendosi entusiasticamente fino a divenire quasi assurde, e guardavano tutte l’uomo stempiato e Ioana a ritrarlo dal suo sconosciuto terrore. Sara Michielli si era alzata dal suo tavolo e puntava Lucia ormai rimasta sola.
– Do…dove vai? – Lucia allungò un braccio nella direzione di Vittorio, ma si rassegnò presto. Interessata più alle forme dell’uomo sconosciuto che lì si dimenava senza un logico schema o una spiegabile accortezza non si accorse neanche di Sara. Vittorio, così, scomparve immergendosi nella nebbia del suo perenne dubbio e lei rimase lì, ferma, al suo posto ad attendere.
– Dobbiamo far qualcosa? – chiedeva un barista all’altro che gli stava di fianco.
Si apriva una nuova scena.
– Signori… – giunse Vittorio intromettendosi nel dialogo appena avviato.
– Buonasera, vuole ordinare?
– mmh, sì, può essere.
Incredibile quanto le due figure fossero l’una lo specchio dell’altra in tutto e per tutto. Erano, semplicemente, due Andrea Selini nelle vesti di particolari ombre mutate, inverosimili, dai portamenti alla materia del corredo e delle gesta. Erano Andrea Selini in ogni piccolo particolare. Soltanto che l’uno si distingueva perché in volto non riusciva a nascondere, con anche chili di fondotinta in bella vista, le sue rughe sfarzose che rivelano un’età superiore a quella del suo compare, mentre l’altro, agli occhi di Vittorio, sarebbe passato, indiscutibilmente, come il ragazzo con cui aveva condiviso casa per tutti quegli anni di studio incessante; eppure, pareva più alto e più piazzato del sottile suo amico loquace che egli ricordava. O era il contrario? Andrea era così? Basso, alto? Quanto alto? Chi erano? Chi c’era?
– Perché questo spettacolo? – chiese in aggiunta Vittorio a quelli.
I due baristi, vedendolo assai disorientato, si posero in guardia, sembranti spaesati.
– Abbiamo bevuto, amico?
– Un paio di birre appena. – cercò di rispondere Vittorio in maniera più sobria possibile.
– Io lo conosco questo!
– Certo, mi conoscete!
– Sì che ti conosciamo.
– Sì che mi conoscete.
Andavano rispondendosi come a sbeffeggiarsi in una commedia demenziale e simbolica. Si vide nel barista dalle rughe rigide un barlume di impazienza e fastidio.
– Ma certo è l’amico svalvolato di Andrea! È lui che è andato a imbruttire il signore prima.
– Ah sì?
– Non eravate voi? – domandò Vittorio.
– A fare che?
– A comparire a caso? Prima il bicchiere per terra, poi il drink…perché state facendo questo?
– Stai delirando!
– No, vi scambiate…vi muovete.
– Questo è fuso completamente.
– Una bella messinscena per un buon malinteso.
– Non c’è nessun malinteso, sei in balia dell’alcol, zio.
– Questo è un pazzo.
– Ci tocca sbattere fuori due folli stasera, sarebbe un record a quest’ora! – e quello guardò l’orologio dalle curve lancette.
– Sono ancora mezzanotte e mezza e già la gente è completamente rincoglionita?
– Dici che è ancora presto?
– Dico che la gente perde la testa!
– La perde ancor prima di entrare in questa fogna.
– Niente più senso del limite.
– E perversi, e pericolosi!
Dialogavano i due apparentemente tranquilli. Vittorio non intuì a cosa andavano riferendosi, ma, sicuramente, colse profondità nel tema loro. Certo, però, non ve n’era di profondità in quel mondo dai freddi toni, dal ritmo incessante e teso. Né tempo, né riflessione, ma azione e continuo perenne dubbio limavano gli argomenti assottigliando la storia a un solo scorrere di immagini veloci.
– Cosa facciamo?
– Con cosa?
– Col tipo al tavolo!
– Dici che rompe il cazzo?
– Non so a te, ma ora non sono in grado di sopportare anche un altro fastidio.
– Quindi lo sbattiamo fuori?
Quello massiccio aveva le maniche scoperte, mostrava due avanbracci definiti e pronti ad agitare la questione.
– Chi dovete sbattere fuori? – domandò Vittorio.
– Quello là!
Il giovane seguì la direzione dell’indice del suo interlocutore e la sua vista proruppe sulla sinistra dell’ingresso, dove ancora Ioana scuoteva l’uomo stempiato.
– Sei tu quello a cui Andrea ha impedito di spaccargli la faccia, no?
– Sì.
– Che ti ha fatto?
– Mi…mi inseguiva. – rispose Vittorio.
– Uno stalker, non mi piace!
– Andrea ci ha detto di intervenire se avessimo visto problemi.
– A quanto pare è completamente andato. Guarda come si agita.
Vittorio non riusciva a prenderli sul serio. Si inclinava mordendosi il labbro in malore dinanzi a due facce false e plasmate a modo. Trucchi da ogni parte, ciglia immobili e tratti disegnati. Due maschere. Due burattini pilotati che si prendevano gioco di lui, pretendendo di celare le loro fattezze modificate. Credevano non se ne accorgesse.
– Non si sente bene.
– Mi sa di no!
– Lo sistemi tu questo ragazzo?
– Non lo so, Andrea si incazza se gli strapazzo l’amichetto…
Vittorio pose un indice verso l’altro e i due vennero richiamati all’attenzione. Ci fu silenzio per un po’ e i led al soffitto diedero modo al locale di spegnersi e risplendere di una fioca luce bianca, mentre il mondo tutto si tinse di un blu accattivante e mal posto. Una tonalità tipica per dar spazio alle danze tranquille, dove la calca di gente, senza il pensiero di essere notata perché poco risaltata dalla luce ormai debole, continuava ad attrarsi verso il centro nel movimento convulso e frenetico. Il mondo cambiò passando da un passivo rossastro ad un attivo blu instabile. La vita si rigenerò e si estremizzò in tante risate e vari orgasmi incontenibili.
– Cosa vuoi, amico? Dai, abbiamo già quel pazzo all’ingresso a cui badare!
Vittorio rise. Per la prima volta in tutta la serata scoppiò in una folle e illogica risata.
– No, è che, cioè, siete così uguali… – disse Vittorio tra gli eccessi, accusandoli entrambi.
– A cosa?
– Al mio amico. Ecco, sì, è laggiù!
Andrea, agitando le braccia, cercava di placare l’estraneo che ancora volteggiava nella sua ansia di terrore immane.
– Andrea, il mio amico, quello con la camicia bianca, lavora qui, sapete?
Lo sguardo dei due lo ridicolizzò al punto che dovette ritirare il braccio e porsi di nuovo.
– Lo sappiamo che sei amico di Andrea.
– E voi siete uguali a lui! – rise ancora Vittorio, totalmente folle.
– I baristi di questo bar vestono allo stesso modo, amico.
– Ma c’era proprio bisogno di fare…
– Cosa?
– Dico, c’era proprio bisogno di diventare l’uno il sosia dell’altro? – e scoppiò ancora in un martirio di derisione e vuoto, come a sputare tutto il veleno accumulato, tutto il marcio di una pazzia che lo perseguitava da troppo, opprimendolo nei fianchi stretti.
I due si guardarono impietriti. Vittorio si accorse di aver colpito nel segno quando gli sguardi persero la loro immutabile sicurezza da teatro d’esperienza per porsi in un contesto più umano, confuso e anonimo. Le copie di Andrea Selini si osservarono come quando ci si rende conto d’aver fatto uno sbaglio in due e ci si accusa con le iridi e le espressioni, ma senza la possibilità di rimproverare sé stessi, o l’altro complice, con parole e umiliazioni.
– Ripeto, questo è completamente matto! – intervenne uno dei due all’improvviso, ma nel tono mai più si rivide quella neutralità di certezza che caratterizza chi sta operando nel giusto modo.
In Vittorio apparve un ghigno assai deforme, da lui mai prodotto.
– Senti, dobbiamo andare a vedere che succede.
– Torniamo a parlare dopo, amichetto di Andrea!
E i due fuggirono dal bancone dirigendosi di soprassalto verso la posizione dell’uomo stempiato, ma a quanto pare non c’era bisogno di ricorrere ad alcun tipo di accortezza. Lo sconosciuto era tornato a sedere in modo composto, seppur nel viso risiedeva ancora tutto il cupo della sua ansia, come immerso in un ambiente ostile. Ioana gli stava, inspiegabilmente, di fianco, lo tranquillizzava, insieme al gruppo dei volti di ceramica.
– Fottuti stronzi, credono di poter fottere me?! Credono di farmi impazzire in questo cazzo di bar?
E così dicendo, nascosto nel suono dalle alte frequenze, celato nel colore dalla bassa luminosità che ora si andava a rarefare, complice dell’assenza dei due incaricati al controllo, Vittorio allungò le mani in direzione della cassa e sottrasse le prime due bottiglie che riuscì a trovare.
– Bastardi, cosa credono di ottenere? Perché lo fanno?! – stappò le birre e bevve profondamente.
Ora bastava dirigersi da Lucia. Insieme a lei avrebbe raggiunto Andrea, l’uomo stempiato, Ioana e i due baristi. Le avrebbe mostrato l’indecenza di quell’oscuro spettacolo ora messo in mostra davanti ai loro occhi e, finalmente, Lucia avrebbe dato credito alla sua teoria dell’azione combinata; anche se ancor mancava un movente e non si aveva il regista, ma solo dubbi spaesati.
Un complotto in piena regola, Vittorio se ne era certo. Volevano farlo diventare matto.
Il locale, intanto, si era trasformato in una vera e propria bolgia al buio. Vittorio, ripercorrendo il bancone al contrario, non vedeva da un palmo dalla sua mano, ma la musica lo guidava nel percorso. Più si faceva intensa più era vicino a ritrovare Lucia al suo sgabello.
– Mi scusi… – urtò un paio di persone che, illuminate dal bianco opaco, si mostrarono dagli occhi sbarrati e martoriati da qualche intima colpa non rivelata, ma non era più il caso di dare a vedersi angosciato, non lo era affatto. La consapevolezza di non aver sbagliato, di non aver buttato in malo modo il tempo impiegato a confessare i suoi dubbi e le sue insicurezze verso una persona tanto per lui importante e che, stanotte, rientrava a pieni titoli nella sua indigenza. Lucia, che ora cercava e inseguiva tra le postazioni del bar Rebbia, dava nuova vita a Vittorio Malosi, un’energia tale da farlo muovere con veemenza ed ignorando ogni urto.
– Scusi! – andava dicendo e ricordando la prima spinta subita, la prima offesa avuta, lì dove tutto era iniziato ed ora stava, a spirale, precipitando.
Vittorio era pronto a mostrare alla sua amica il marcio di quella città lucida. Avrebbero poi insieme deciso cosa fare. Avrebbero forse avvertito qualcuno. Quell’uomo malato che lo aveva urtato avrebbe rivelato le parti dei vari personaggi che facevano da sottofondo, da sfondo, da protagonisti o comparse solo. Le coincidenze a unirsi in un quadro chiaro, sinistro e limato dagli sbagli. Camminava ed ora correva. Vedeva poco. Due bottiglie gialle salde nelle mani. Si teneva vicino agli sgabelli e fluiva lungo il bancone semicircolare. Il suo vagheggio era assoluto. Un’emicrania lancinante lo prese d’improvviso, ma Vittorio continuava ad avanzare nell’affanno e nell’inquietudine più nera. Poi il tavolo s’arrestò. Non c’erano più seggiole rotonde. Solo l’assordante impulso dei suoni bassi dei due suv e la folla che lo stringeva da un lato costringendolo a fermarsi ed ansimare incredulo. Aveva raggiunto l’estremità del tavolo. Aveva veduto tutte le postazioni e controllato ogni sedia. Aveva lasciato Lucia in una di quelle seggiole ad attenderlo, ma lei non era lì. Lucia non era più seduta al banco, al loro solito posto della sera al bar Rebbia, dove potevano osservare l’epilogo plasmarsi dinanzi a loro occhi. Ricordò di aver visto Sara dirigersi dalla sua amica rimasta sola al bancone. L’aveva messa in pericolo per andare ad accusare quelle due maschere, la sua irrequietezza aveva, di nuovo, avuto la meglio. Dov’era? Dov’era andata Lucia?
“Masks,” by Emil Nolde(1911)
