Calca di pensieri, le voci, emicranie

La chiamo melèda, l’accorgersi di causa prossima alle notti passate prive del sapor del ristoro. Ora solo la definisco, non so se il domani mi darà modo di scarnirne i tratti, d’appurare ogni peculiarità sua. Sappi solo che tale melèda è un malanno che tormenta chi mal progredisce, pensa oltre il limite dell’ingegno, trasportandosi in proprio, su sconosciuti colli dove la carne marcisce putrida. Una patologia ben descritta, ha nome d’overthinking, ma comprendi quanto io abbia dolore? La mia mente è così malandata che associa fantasia anche al concreto, ha necessità d’inventare l’inutilità, d’ideare l’inutilizzo, termini dell’inappropriato. Melèda, ma cosa io sono per dire cosa m’affligge? Eppure, c’è più di questo, mia spora, c’è più del dolore, più dell’agonia. È una profondità d’essere ancora non goduta, qualcosa che va oltre anche solo la concezione, il dire proprio di cos’è il senso, il riflettere. C’è di più. È ingegno, che seppur sano clinicamente, si colma di stupide iniziative, riflettendo su ogni singola stesura trascurabile veduta durante il giorno. L’accumulo incontrollato d’innocui, inadatti, vuoti di spirito, cosa che va oltre il semplice pensiero, ma forse sopravvaluto ed ego adepta confusa, come mio solito. Mi ritrovo a vagare su temi dell’incerto, astratti, inconcludenti, eppur logorano una voglia di conoscere ogni minimo del tutto. È folle, mal si vive stretti nella morsa delle voci in testa, al buio, udite, e mai capite. Son sillabe, parole che dialogano tra loro del niente, dibattendo su ciò cha mai avranno coscienza, su ciò che mai sarà loro in possesso logico, conosciuto. Iniziano al calar del sole e vanno avanti tutta notte, senza placarsi un minimo. Ed io sono un fruitore di loro accenni non voluti. Ascolto continuamente. S’assottigliano le ore di sopore, perché pensare, appunto, quando mai il cielo, ormai scuro, vuol silenzio, uccide più d’ogni fisica violenza. Questa, poi, è inferta da me, con vittima designata, paradossalmente, associata alle mie intenzioni. Sono carnefice e vittima, che voglio ogni gloria e non si vuole sentire male.
Una ragione che dilaga è moria, soggetta alla calca dei pensieri. Il sovra riflettere, ma con eccessi di pulsazioni, in cui anche l’illogico dell’essere vivi si mescola con il tangibile della scienza psichica, quella è melèda. Gli spettri sono incuranti nel mio benessere, loro, da sé, parlano a vanvera. Al mattino allora, ho emicranie. Anche tutta la quiete dell’universo approssimato non basta a farmi ripartire in costanza, e definisco quanto mai la melèda possa indebolire un uomo immerso in mondo progressivo, rapido, rendendolo martire di competizione assidua, deleteria; allor perché egli rimane indietro rispetto a chi ha mente pratica, lucida, immedesimata su guadagno e obbiettivo. Io, o chi, come me, ha melèda, appunto, è focalizzato in perdita di senno, dissipando attimi del reale, viaggiando in sentieri di proprio spunto, fantasia fatale, sanguinaria quanto ogni contusione. E per quanto si sforzi d’essere concretezza, per quanto possa dire al corpo di non ancora proseguire nel dislocare, solo immaginando, ogni pezzo di materia intorno a sé, ciò che fa la ragione è auto implodere in una condizione nevrotica di trascuratezza di ciò che è percettibile, ma cosa lo è per davvero? Io non posso esserne certo e ciò m’arreca un dolore intollerabile. Vorrei sventrarmi piano dall’interno. Ho paura, appunto, che in anni appena una logica abituata all’abbandono di sé, alla folla dei quesiti che mai soddisfa, all’immaginazione assidua, irrefrenabile, che martoria il corpo, possa smarrire condizione del giorno. So che rileggendo, a che passati siano molti lustri da oggi, mi darò ragione, perché melèda ha profondità in sé ancora d’approfondire, non componendosi di sola logica, ma d’anima e cuore, che mondo non equo, d’acciaio, non di certo potrà ignorare per tutta un’eternità. Se melèda ammala il creato, cosa che ancor si diffonde, allora concetto d’umano svanisce su scrittura di produzione incontrollabile, come massa dei miei vocaboli, come di palpebre la pelle s’oscura dal non silenzio. State zitti.
È di meditazioni che si compone una calca omicida a colmare il mio intelletto. Non so io come guarire. Forse ancora nessuno sa placar molestia, perché per quanto la chimica delle neurali iterazioni può essere recisa, penso che smarrire l’abisso che m’appartiene reca offesa al senso di moralità. La perdita di vigore mi concede ad ideali imposti da un modello insano, da un riflettere infermo, che scaturisce dalla mia mole, carnale, sol legata alla terra, incapace. Concludo appuntando le prime osservazioni. Parlerò d’approfondirsi più in là, fin quando ritorno alla cenere. Ancor oggi le emicranie son sopportabili, documenterò la mia melèda col passare del momento. La mancanza del sonno m’ucciderà, mia mora. La calca dei pensieri mi dà tormento, mi massacra. Son stufo di scindermi l’anima, vorrei essere soltanto uno, e invece siamo in molti. State zitti.

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